Anno 40/Numero 1

Vegetarianesimo: presente e passato

Molte persone identificano la dieta vegetariana con un’alimentazione basata solo su insalate e ortaggi di vario tipo. Ovviamente non è così. Ci sono diete vegetariane permissive (ovo-latto-vegetariane), diete vegetariane restrittive, con totale esenzione di cibi di origine animale, come le diete “vegan”, termine che deriva dalla contrazione della parola inglese “vegetarian”, mentre l’analogo italiano sarebbe “vegetaliano”, dal latino “vegetalis”(utilizzano solo verdure, cereali, legumi, semi, frutta fresca e secca, alghe). Esistono poi anche i granivori (gruppo molto ristretto: mangiano solo cereali), i fruttariani (solo frutta fresca e secca), i crudisti (solo alimenti crudi, anche di origine animale), coloro che seguono la dieta macrobiotica. Quest’ultima è stata inventata dal giapponese George Ohsawa (dal greco “macros” che significa LA RIVISTA DI SCIENZA DELL’ALIMENTAZIONE, NUMERO 1, GENNAIO - MARZO 2011, ANNO 40 108 lungo, e “bios” che significa vita: quindi una dieta per assicurarsi una lunga vecchiaia) il quale sostiene l’ambivalenza di ogni cosa, di ogni stato d’animo. In altre parole, ogni cosa possiede due poli, chiamati rispettivamente yin e yang, che sono forze antagoniste e complementari: giornonotte, uomo-donna, guerra-pace, freddo-caldo, dolce-amaro. Chi sa equilibrare l’universo e la vita, raggiunge un grande equilibrio. Ohsawa era un filosofo, e non aveva nozioni di fisiologia, per cui ha elaborato una dieta basata sulla fantasia, pericolosa per la salute se protratta nel tempo. Disapprova l’impiego di pomodori, patate, melanzane e consiglia invece lattuga, verza, porri, rape e ceci. Approva il formaggio di capra e non lo yogurt. Permette il pesce, ma non le uova e il latte. La disciplina alimentare suggerita da Ohsawa è stata definita “un’accozzaglia di strani precetti“ e il Food Council dell’Associazione Medica americana ha preso ufficialmente un atteggiamento negativo a tale dieta, dopo alcuni casi di morte verificatisi tra i seguaci rigidi a tali indicazioni. La storia e l’evoluzione dell’uomo ci hanno dimostrato la grande flessibilità di adattamento dell’organismo umano nel modificare la propria alimentazione, in conseguenza del cambiamento delle esigenze, delle abitudini, del clima, delle necessità fisiche. I nostri antenati sono stati cacciatori e raccoglitori per almeno centomila anni e ottenevano le calorie necessarie alla vita quasi esclusivamente dalla carne. Successivamente, dopo la rivoluzione agricola (circa 10.000 anni fa), le granaglie diventarono il cibo principale del genere umano. Le vicende storiche sono state innumerevoli, comunque oggi concordemente le Società Scientifiche che si occupano di Nutrizione Umana affermano che, per una buona salute, l’alimentazione deve essere equilibrata nell’apporto dei vari principi nutritivi conosciuti utilizzando cibi provenienti sia dal mondo vegetale che animale, ad opportune dosi. La fisiologia della nutrizione ci ha insegnato che l’uomo è onnivoro, perché dotato di parti anatomiche adatte a raccogliere, addentare, masticare i cibi di origine animale, ma nello stesso tempo ha una lunghezza dell’intestino 7-10 volte maggiore rispetto alla statura corporea, che è un rapporto più simile a quella degli erbivori (12-18 volte) che a quella dei carnivori (4 volte). La lunghezza del tubo digerente, nel regno animale, è generalmente proporzionale alla quantità di fibre vegetali presenti nella dieta. I vegetariani integralisti ritengono che l’uso della carne sia nocivo; contro questa opinione si potrebbe far notare che se il cibo animale fosse dannoso, l’uomo non possiederebbe nel suo organismo i meccanismi per digerire i cibi carnei. Va detto chiaramente che si può vivere al meglio da latto-ovo-vegetariani o da onnivori (si può salire in entrambi i casi sul podio olimpico e aspirare alla longevità), però la scelta esclusivamente vegetariana non può essere ritenuta scientificamente valida in tutti i casi. Scrive Eugenio Del Toma, presidente onorario dell’ADI (Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica): «La riscoperta dei cibi vegetali ha il pregio di riequilibrare un’alimentazione dove le carni, gli insaccati, i formaggi, i sughi elaborati, i tortelli e i ravioli, i dolciumi e tanti altri cibi ipercalorici occupano ormai quasi tutto lo spazio nutrizionale a spese di molte varietà di verdure e di frutta». Nell’ambito pediatrico scrive Marcello Giovannini, direttore della Clinica Pediatrica dell’Ospedale San Paolo (Università di Milano): «I bambini che seguono una dieta vegetariana hanno un elevato rischio di deficit nutrizionale con possibilità di ritardo di crescita staturo-ponderale e ritardo di sviluppo psicomotorio. Anche durante l’allattamento, in caso di madre vegetariana senza adeguata supplementazione, aumenta il rischio di danno cognitivo nel neonato soprattutto se la dieta priva di alimenti di origine animale prosegue anche con il divezzamento» .

Diabete: sempre al centro dell’attenzione

Per tenere sotto controllo la glicemia, onde evitare la comparsa delle complicanze che la malattia diabetica mal controllata provoca, si moltiplicano studi e ricerche in ogni settore della farmacologia, dell’alimentazione, della tecnologia. “News Scientist” riporta una studio eseguito all’Università di Vienna (Alois Jungbauer e coll.) che dimostra come un consumo moderato di vino rosso può ridurre il rischio di diabete 2. Lo studio ha testato 10 vini rossi e 2 bianchi mettendoli a confronto con gli effetti di un farmaco antidiabete che agisce sulla proteina Ppar-gamma, un recettore che regola l’assorbimento del glucosio nelle cellule adipose. I risultati evidenziano che i bianchi avevano bassa capacità di legame con la proteina, mentre più attivo si è dimostrato il vino rosso. I composti responsabili di questo comportamento sono il flavonoide epicatechina gallato, R. Pellati Nutrizione e salute 107 presente anche nel tè verde, e l’acido ellagico. Jungbauer avverte che questi composti non fanno del vino rosso una bacchetta magica (bisogna sempre fare i conti con la presenza dell’alcool). Inoltre bisogna valutare le possibilità di assorbimento e di disponibilità dei suddetti composti. L’Ospedale Luigi Sacco di Milano invece ha messo a punto un volume dal titolo accattivante “La merenda con il leone”, per i giovani colpiti dal diabete di tipo 1 (una volta chiamato insulinodipendente), che colpisce in Italia 250.000 persone di cui 20.000 tra gli 0 e i 18 anni. Gian Vincenzo Zuccotti, Direttore della Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi di Milano presso l’Ospedale Luigi Sacco, e Andrea Scaramuzza, Responsabile del Servizio di Diabetologia affermano che il 58 % dei loro pazienti è trattato con microinfusori, oggi dotati anche di un sensore per il monitoraggio continuo della glicemia. Nel diabete di tipo 1 però l’alimentazione non è causa della malattia, ma diventa elemento critico nella gestione della patologia, in quanto spesso associato al concetto di restrizione e limitazione dell’assunzione di alcuni cibi perché dannosi. Di qui è nata l’idea di unire un momento di formazione a un’occasione ludica (come quella della merenda) per insegnare ai ragazzi con il diabete di tipo 1 a seguire una corretta alimentazione e uno stile di vita salutare, oltre a fornire utili consigli e semplici approfondimenti tecnologici per ottimizzare la terapia prescritta. Per questo motivo, anche se il libro è pensato per i giovani diabetici, può essere letto da tutti, perché un’alimentazione sana ed equilibrata deve essere un diritto e un dovere per tutti. Il volume (che contiene una selezione di ricette gustose particolarmente adatte per le merende) può essere richiesto al Servizio di Diabetologia dell’Ospedale Sacco di Milano (Tel. 02-39042265 - e-mail scaramuzza. [email protected]). I dati forniti dagli Annali 2010 dell’Associazione medici diabetologi (AMD) sono invece sempre più preoccupanti per il diabete di tipo 2: circa 3 milioni in Italia e i veri “diabesi” (ossia contemporaneamente obesi e con diabete) circa 2 milioni. Dice Antonio Pontiroli, Direttore della II Medicina dell’Azienda Ospedaliera Polo Universitario San Paolo di Milano: «Le strade che si stanno battendo sono essenzialmente due: sviluppare farmaci contro il diabete che abbiano anche un’azione di riduzione del peso corporeo e, dall’altra parte mettere a punto interventri di chirurgia bariatrica destinati alla riduzione del peso e che abbiano anche un ruolo nella cura del diabete». Riccardo Dalle Grave, Presidente di AIDAP (Associazione Italiana Disturbi dell’Alimentazione e del Peso) ha pubblicato il volume “Perdere peso con gusto: 100 ricette AIDAP per perdere e mantenere il peso” (Dalle Grave-Pasqualoni - Ed. Positive Press 2011) rivolto ai soggetti con sovrappeso e obesità che intendono perdere peso seguendo un programma scientifico di modificazione dello stile di vita. Dall’European Association for the Study of Diabetes (EASD) la parola d’ordine è: monitorare la glicemia. E la Sanofi-Aventis sta lanciando un dispositivo (IBG-star) che si connette con iPhone e iPod e archivia fino a 300 test glicemici. Il Ministro della Salute Ferruccio Fazio segnala che i costi della malattia diabetica sono passati da 5 miliardi di euro del 1998 (pari al 6,7 % della spesa per la sanità) a circa 11 miliardi di oggi (cioè il 10 % della spesa).

Fragole: cosa dice la storia

Sovente sentiamo dire che le fragole di una volta erano migliori, più gustose, più fragranti (quelle di oggi sembrano gonfiate). In realtà oggi le fragole che troviamo dal fruttivendolo o al supermercato sono varietà geneticamente caratterizzate da frutti più grossi di quelli di una volta. Inoltre il contenuto in zuccheri diminuisce con l’aumentare delle dimensioni del frutto. E per avere un frutto più grande e consistente è necessario che le pareti delle sue cellule siano più spesse, con lo svantaggio di trattenere le molecole responsabili degli odori e dei sapori al loro interno. La fragola selvatica non esiste più, perché non può soddisfare le esigenze dei mercati odierni ortofrutticoli: la produzione italiana attuale è di 153.000 tonnellate e ne importiamo per circa 20 milioni di euro soprattutto dalla Spagna. Per il resto da Egitto, Israele e Turchia. Se oggi possiamo gustare questo gradevole frutto senza svuotare il nostro portafoglio, dobbiamo dire grazie ad un ufficiale del genio marittimo francese (Amèdèe Francois Frèzier) che nel 1712, cartografo e incaricato di mettere a punto il litorale cileno, notò una varietà di fragole dai grossi frutti bianchi (chiamata poi “Fragaria chiloensis”). Questa curiosa fragola venne importata in Francia e coltivata nei giardini di Versailles per dare lustro e piacere a Luigi XIV e alle golose cortigiane sino a quando il botanico Antoine Nicolas Duchesne nel 1766 riuscì a realizzare un incrocio fra la suddetta fragola e la “Fragaria virginiana” dai frutti piccoli e gustosi proveniente dalle colonie del Nord America. Questo incrocio diede i natali all’antenata della fragola coltivata oggi in tutti i continenti: la “Fragaria ananassa”. Queste curiose e interessanti notizie sono riprese dal volume appena uscito “La fragola” facente parte della Collana “Coltura e Cultura”, ideata e coordinata da Renzo Angelini per Bayer CropScience con la collaborazione di 64 docenti universitari di botanica, agraria, scienza dell’alimentazione, scienze ambientali. La fragola era già stata notata nel sottobosco dagli antichi romani ed è citata da Virgilio nelle “bucoliche” e nei secoli successivi troviamo frequentemente dei personaggi celebri che hanno avuto occasione di apprezzare questo frutto piacevole per forma, colore, sapore e consistenza. Il celebre botanico svedese Linneo era persuaso che una cura intensiva a base di fragole fosse responsabile della miracolosa guarigione da una cura di gotta che l’aveva colpito. Shakeaspeare definisce la fragola in questo modo «innocenza e fragranza sono i suoi nomi. Essa è un cibo da fate». Oggi la fragola è apprezzata non solo per il gusto e l’aroma che emana ma per la presenza di acido ellagico, un polifenolo ad attività antiossidante. Questo polifenolo n vitro ha dimostrato anche un’attività antitumorale riducendo la carcinogenesi. Poiché tutti i frutti contengono sostanze dotate di proprietà antiossidanti, è stato sviluppato un metodo per valutare tale attività (TAA o Totale Antioxidant Activity) e i risultati sono distribuiti su una piramide. Le fragole si trovano in cima a questa piramide insieme ai mirtilli, i cavoli verdi e le prugne nere. Le fragole si trovano in vetta anche alla scala ORAC (Oxygen Radical Absorbance Capacity), quindi combattono i radicali liberi e aiutano a mantenerci giovani. Non è poco.

Pazienti sodio-sensibili

Le Società Scientifiche che si occupano di Nutrizione Umana sono concordi nel consigliare la restrizione sodica nei pazienti ipertesi. Il beneficio pressorio però presenta un’ampia variabilità individuale. È più evidente nei soggetti di razza nera, nei pazienti anziani e nei soggetti con ipertensione, diabete o insufficienza renale, cioè in quei gruppi in cui l’attività del sistema reninaangiotensina- aldosterone è meno spiccata. È molto importante conoscere la sensibilità al sodio per evitare di insistere con la restrizione sodica nei pazienti sodio-resistenti: in questi soggetti, oltre a non svolgere effetti ipotensivi, la restrizione sodica può indurre un incremento pressorio paradosso. In altre parole, anche per la restrizione di sale valgono le considerazioni sul rapporto rischio/ beneficio. Una forte restrizione sodica può indurre in alcuni pazienti un peggioramento dei valori di HDL, di trigliceridi e della sensibilità all’insulina. Per identificare i pazienti ipertesi che manifestano sensibilità al sodio Gianfranco Parati (Università di Milano-Bicocca) e un gruppo di ricercatori dell’Istituto Auxologico Italiano hanno messo a punto un test che si basa due parametri rilevabili mediante monitoraggio pressorio delle 24 ore: il pattern “dipping”, e la frequenza cardiaca. Con i termini “dipper” e “non-dipper” si intendono i pazienti i cui valori pressori si riducono durante la notte (dippers) o non si riducono “non-dippers”. Un paziente dippers presenta una caduta della pressione arteriosa media superiore al 10 % rispetto al valore medio diurno. I pazienti che ritengono sodio durante il giorno vanno incontro ad un aumento dei valori pressori per continuare ad eliminare sodio anche durante la notte: viene meno cioè la variazione pressoria circadiana (non-dippers). Nei pazienti ipertesi la frequenza cardiaca aumenta parallelamente al grado di sodio-sensibilità e questo fatto suggerisce un’alterazione dei meccanismi di regolazione autonoma. Effettuando il monitoraggio pressorio nelle 24 ore è possibile verificare da un lato se la pressione arteriosa scende o non scende durante la notte, o in altre parole il “dipping pattern”, e dall’altro la frequenza cardiaca media nelle 24 ore. La perdita del “dipping pattern” si osserva infatti negli ipertesi sensibili al sodio, così come, in questi soggetti, la frequenza cardiaca tende ad aumentare a causa di una cattiva regolazione cardiaca. Il test classico per determinare la sensibilità al sodio prevedeva una settimana di dieta caratterizzata da elevati introiti di sodio e una settimana a basso regime di sodio. Si valutava quindi quanto il cloruro di sodio era in grado di modificare la pressione arteriosa.

Latte e melatonina

La melatonina (N-acetilmetossitriptamina) è un ormone che la ghiandola pineale (epifisi) produce a partire dalla serotonina. La produzione di questo ormone comincia nelle ore serali per raggiungere il massimo nel cuore della notte e decresce al mattino. Con l’avanzare dell’età la produzione diminuisce e si diffonde rapidamente in tutto l’organismo: raggiunge anche il latte. Agostino Macrì, Consulente dell’Unione Nazionale Consumatori sulla sicurezza alimentare e la sanità pubblica veterinaria, riferisce su “La settimana veterinaria” che questo fenomeno è stato studiato dal Centro ricerche di un’azienda tedesca per mettere a punto una tecnica che consente di aumentare ulteriormente la concentrazione di melatonina nel latte bovino prodotto e munto durante la notte. I dettagli sulla composizione della dieta da somministrare alle vacche sono coperti da brevetto. Il latte ottenuto dalla mungitura notturna viene essiccato e polverizzato. Il consumatore diluisce e consuma questo latte prima di andare a letto con effetti positivi nella regolazione del sonno. Il latte R. Pellati Nutrizione e salute 105 “notturno” è considerato un alimento e, in Germania, può essere commercializzato senza particolari restrizioni. I problemi che nascono da questa tecnica sono soprattutto etici. Prima di tutto si alterano i ritmi “circadiani” delle vacche che vengono munte in orari diversi da quelli normali e quindi potrebbero verificarsi situazioni di “stress”. Secondariamente la prolungata esposizione alla luce solare potrebbe ulteriormente influire sullo stato di benessere degli animali. Indubbiamente gli alimenti sono delle miniere di sostanze non ancora conosciute e il latte “notturno” rappresenta uno stimolo a intensificare le ricerche scientifiche per individuare nuove sostanze utili per la salute pubblica e ridurre le “scorciatoie terapeutiche” rappresentate dalle specialità medicinali. Già si sa che il latte è ricco di molecole “funzionali”, capaci di svolgere funzioni favorevoli per il benessere e la salute dell’uomo, al di là della semplice nutrizione. A seguito della digestione o dei trattamenti industriali si liberano nel latte delle sequenze di aminoacidi che svolgono varie attività biologiche (antiipertensiva, immunomodulatrice, endorfinica). Agostino Macrì conclude l’articolo dicendo che trova così un riconoscimento scientifico la consuetudine popolare di bere un bicchiere di latte caldo prima di andare a dormire. Le proprietà farmacologiche della melatonina sono state oggetto di numerosi studi ed è stata dimostrata l’efficacia di intervenire nella correzione dei disturbi provocati dal repentino cambio dei fusi orari durante i lunghi viaggi (Jet lag).

Genoma e dieta

Per mantenere una buona salute non è sufficiente avere garanzie sulla sicurezza degli alimenti e sulla prevenzione dei deficit di macro e micronutrienti. Oggi esiste un crescente interesse sulla possibilità di conferire agli alimenti qualità paragonabili a quelle di veri e propri “modificatori” a lungo termine dello stato di benessere, in modo da realizzare diete che possano portare ad un miglioramento delle funzioni biologiche. D’altra parte è noto che le più comuni patologie croniche possono essere favorite dalla componente genetica e dall’esposizione ad alcuni alimenti e nutrienti. La genomica nutrizionale (o nutrigenomica) studia questi meccanismi biologici (che interessano anche gli effetti dei nutrienti sul DNA) con la prospettiva di modificare la pratica nutrizionale. È risaputo che i nutrienti possono provocare alterazione nell’espressione genica e influenzare l’intero processo di programmazione del genoma. Per esempio un deficit del complesso vitaminico del gruppo B (folati in particolare) può compromettere la sintesi e la stabilità del DNA e aumentare il grado della mutazione, effetto prodotto anche dall’eccesso di pro-ossidanti, incluso il ferro. La mutazione del gene HFE, associata a rischio di emocromatosi, potrebbe aver rappresentato un vantaggio in aree geografiche povere di ferro, ma conferisce un maggior rischio in aree ricche di questo metallo. Gli embrioni, e successivamente il feto nel corso della vita intrauterina, sembrano essere particolarmente suscettibili all’adattamento indotto dall’alimentazione attraverso il fenomeno dell’imprinting metabolico o “programmazione metabolica”. Questi adattamenti predispongono l’individuo a patologie metaboliche nell’età adulta. Studi animali hanno dimostrato come la precoce esposizione a determinati nutrienti aumenti il rischio di ipertensione, obesità, insulino-resistenza, a loro volta precursori di patologie croniche. Carlo Agostoni e coll. (Dipartimento di Scienze materno-infantili della Clinica Pediatrica, AO San Paolo - Università di Milano) sottolineano, sul mensile “Pediatria” che la variabilità del genoma umano (come conseguenza dell’adattamento al contesto nutrizionale), è attualmente riconosciuta come fattore in grado di influenzare: la tolleranza o intolleranza agli alimenti e ai micronutrienti, il rischio di sviluppare patologie metaboliche, i fabbisogni nutrizionali. Nel tentativo di creare raccomandazioni nutrizionali geneticamente determinate che conducano a progressi per la salute umana bisogna tener presente che diversi sottogruppi di soggetti potrebbero rispondere in maniera diversa all’esposizione di alcuni alimenti, creando benefici per alcuni e rischi per altri. Particolare interesse è stato dimostrato per l’identificazione di livelli numerici più precisi nel fabbisogno di Vitamina B12, niacina, zinco, Vitamina C, Vitamina E, e altri antiossidanti, o macronutrienti come gli acidi grassi grassi polinsaturi e loro derivati a lunga catena. Per raggiungere gli obiettivi principali della nutrigenomica “ideale” occorre approfondire le conoscenze sul ruolo esercitato dall’alimentazione materna nei confronti della programmazione delle vie metaboliche embrionali.

Malnutrizione ed invecchiamento

La prestigiosa rivista “Cell Metabolism” riporta un lavoro di Enzo Nisoli (Università di Pavia-Milano- Istituto Auxologico di Milano), in cui viene dimostrato che una miscela di aminoacidi (AA) contenente anche quelli ramificati (BCAA) ha effetti sulla durata della vita, ma non solo: si è evidenziato anche un miglioramento dello stato di salute. Negli innumerevoli processi che caratterizzano la senescenza, due eventi soprattutto sembrano avere conseguenze di particolare rilievo: la diminuita genesi di mitocondri e l’aumento dei danni ossidativi a livello tissutale. La ricerca recente ha già sperimentato varie miscele di aminoacidi per migliorare il profilo metabolico e ripristinare il patrimonio proteico di diversi tessuti. In popolazioni numericamente limitate i BCAA hanno offerto risultati di rilievo nel contrastare la perdita di massa muscolo-scheletrica, l’insulino-resistenza, il diabete di tipo 2 e disturbi CV. Nel lavoro di Nisoli un ulteriore quesito veniva posto sul possibile coinvolgimento dell’ossido nitrico sintasi endoteliale (eNOS), dato che i topi eNOS privi dell’enzima (e per questo deficitari nella genesi di mitocondri) mostravano una sopravvivenza minore indotta dall’invecchiamento. L’esperimento è stato condotto su due popolazioni di topi, una normale e una eNOS priva, con un braccio “attivo” per ciascun gruppo e uno di controllo. Ai gruppi attivi è stata somministrata quotidianamente e sino al termine della vita, insieme all’acqua, la miscela arricchita di con BCAA. Alla fine della sperimentazione, nel gruppo attivo della popolazione “normale” si aveva un incremento della sopravvivenza del 12 per cento. Gli autori concludono che quanto osservato sembra dovuto ad un’aumentata mitocondrio genesi e ad un ridotto stress ossidativo a livello della muscolatura cardiaca e muscolo-scheletrica, attraverso un meccanismo mediato dall’eNOS. Tali risultati suggeriscono il possibile utilizzo della miscela BCAA nelle persone anziane defedate, per contrastare i disturbi associati all’invecchiamento, e forniscono il razionale per approfondire il ruolo degli AA in questo campo. Francesco Saverio Dioguardi, dell’Università Statale di Milano, sul Mensile “Medico e Paziente” ha commentato il lavoro di Nisoli dicendo che nell’anziano che non ha gravi patologie del fegato o del rene si deve sempre sospettare che il paziente stia vivendo in stato catabolico e abbia insufficiente introduzione di proteine. Inoltre possono avvantaggiarsene i cardiopatici, i bronchitici cronici, i dializzati, ovvero tutte le condizioni in cui i fabbisogni non sono coperti dalla normale alimentazione. Come conseguenza della malnutrizione può instaurarsi un ciclo che tende a divenire sempre più grave, tra lo scarso assorbimento proteico, scarsa efficienza pancreatica e scarsa efficienza digestiva. Purtroppo invecchiare significa anche perdere i mitocondri, le piccole strutture che producono energia nelle cellule e senza energia non c’è sintesi. Mantenere integre le attività e le funzioni delle cellule in ogni tessuto è molto costoso in termini di energia, perché si deve distruggere la proteina che si usura e sostituirla con una nuova. Le proteine “vecchie” perdono efficienza e diventano fragili, alla fine si “rompono” e devono essere sostituite. Il metabolismo produce energia, ma anche scorie ossidative, l’eliminazione delle quali dipende da complessi sistemi proteici anti-ossidanti, come il glutatione, che devono essere mantenuti abbondanti ed efficienti: il che costa sia in termini energetici che in termini di disponibilità degli aminoacidi necessari.

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