Anno 43/Numero 3
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Alimenti biologici nella letteratura attuale
L’agricoltura biologica è diventata uno dei settori agricoli a più rapida espansione. Nell’ultimo decennio il mercato è triplicato (circa 45 miliardi di euro) sebbene recentemente la crescita sia calata a causa della crisi finanziaria. Gli operatori del settore sono 49.709, di cui 40.146 produttori esclusivi e 5.597 preparatori (comprese le aziende di vendita al dettaglio). Sicilia e Calabria sono le regioni con maggior presenza di aziende biologiche, mentre l’Emilia-Romagna ha la leadership nel settore “trasformazione”.
I consumatori percepiscono gli alimenti prodotti con metodi biologici come più ricchi di nutrienti rispetto agli alimenti prodotti con metodi tradizionali, però allo stato attuale non esistono dati indicanti differenze significative tra alimenti biologici e alimenti prodotti con metodi tradizionali.
L’European Food Information Council ha pubblicato recentemente un rapporto sul mondo dei prodotti biologici dove risulta che i consumatori percepiscono gli alimenti biologici come più sicuri (meno contaminanti chimici sintetici) e attribuiscono maggior valore ai benefici di un minor numero di contaminanti per la salute piuttosto che di un maggior numero “presunto” di nutrienti. Occorre però ricordare che nell’U.E. gli alimenti biologici e tradizionali sono entrambi sottoposti a requisiti severi di sicurezza degli alimenti. Il Regolamento della C.E stabilisce che gli alimenti non possono essere collocati sul mercato se non sono sicuri. Anche se l’agricoltura biologica non consente l’uso di pesticidi sintetici, può però implicare l’uso di un numero limitato di biopesticidi (esempio: rame, zolfo) i quali tendono ad avere un impatto complessivo minore sull’ambiente rispetto ai pesticidi chimici tradizionali.
Gli alimenti biologici tendono ad avere livelli di nitrato inferiori rispetto agli alimenti tradizionali. Tuttavia la probabilità che i metalli pesanti siano assorbiti dal terreno rimane inalterata e la contaminazione da batteri patogeni è più elevata nelle colture biologiche che in quelle tradizionali. Un alimento contenente un ingrediente geneticamente modificato (GM) può essere etichettato come biologico se la percentuale di GM di tale ingrediente è inferiore allo 0,9 %.
Recenti analisi hanno concluso che al momento non esiste alcuna prova di eventuali benefici per la salute correlati alla nutrizione derivanti dal consumo di alimenti organici anziché di alimenti tradizionali. L’unico dato positivo risulta da uno studio che ha valutato come il consumo di ortaggi sia maggiore nei consumatori di alimenti biologici.
Non esistono dati convincenti indicanti che qualità sensoriali superiori negli alimenti biologici. Si può dire invece che l’agricoltura biologica è caratterizzata da un’emissione inferiore di gas a effetto serra (biossido di carbonio, metano, protossido di carbonio, clorofluorocarburi).
Uno studio di scenario ha dimostrato che, se il 50 % dell’agricoltura dell’Europa e dell’America settentrionale venisse convertita in agricoltura biologica, la produzione diminuirebbe e i prezzi dei prodotti alimenti aumenterebbero. Pertanto il problema della fame del mondo subirebbe un peggioramento.
Pertanto gli alimenti e l’agricoltura biologica beneficiano delle percezioni positive dei consumatori, alcune delle quali però non possono essere suffragate dal punto di vista scientifico. Di conseguenza il termine “ biologico” dovrebbe essere considerato come un’informazione relativa alla produzione, indicante al consumatore che un determinato prodotto è stato ottenuto conformemente alla normativa in materia di produzione biologica (Reg. CE 834/2007), anziché un’informazione sul prodotto (comprendente informazioni di carattere nutrizionale e sanitario).
Vitamina D: nuove indicazioni
Dopo la scoperta della vitamina D da parte di E.McCollum nel 1925 che ha sottolineato l’attività di questa sostanza indispensabile per la mineralizzazione dello scheletro, la letteratura segnala continuamente altre indicazioni interessanti. Un lavoro recente pubblicato dal British Medical Journal (Paolo Boffetta Institute Mount Sinai Medical Center di New York) segnala che bassi livelli di Vitamina D aiutano a prevenire neoplasie e malattie cardiovascolari. Il periodico dell’Ordine dei Medici di Torino ha fatto una review della letteratura sull’argomento dove risulta che la vitamina D è presente in 2 forme: la vitamina D2 (ergocalciferolo) e vitamina D3 (colecalciferolo), in gran parte sintetizzata nella cute sotto l’azione dei raggi ultravioletti. E’ ormai assodato che si trova nei pesci grassi, nell’olio di fegato di merluzzo, uova ed burro. La forma attiva della vitamina D3 è ottenuta dalla vitamina D2 e dalla vitamina D3 a seguito di 2 distinte reazioni d’idrossilazione: la prima a livello epatico, con la formazione della 25 OH vitamina D3 (calcidiolo) e la seconda a livello renale, con la formazione dell’1,25 (OH) vitamina D3 (calcitriolo). I metaboliti attivi raggiungono per via ematica numerosi tessuti bersaglio dove si legano ad un recettore proteico specifico nucleare (Vitamin D Receptor o VDR). Gli effetti endocrini della vitamina D si manifestano nell’intestino (dove viene stimolata la sintesi della proteina legante il calcio, facilitando l’assorbimento a livello duodenale), nell’osso (dove viene stimolata la neoformazione osteoblastica e la mineralizzazione) e nelle paratiroidi (dove la vitamina D inibisce la sintesi del paratormone).
Poiché il VDR è stato individuato anche in cute, mammella,ipofisi, cellule pancreatiche, gonadi, neuroni e cellule gliali, muscolatura scheletrica, monociti circolanti, linfociti B e T attivati, si sono ipotizzati numerosi effetti extraossei della vitamina D.
E’ stato osservato un legame tra ipovitaminosi ed astenia muscolare, che causa un’aumentata probabilità di cadute a terra e quindi del rischio di fratture, specie del femore. In realtà numerosi trial clinici, condotti su anziani, hanno dimostrato una significativa riduzione del rischio di caduta in seguito a supplementazione con vitamina D di almeno 700 – 1000 UI/die.
Negli ultimi anni è stata documentata in tutto il mondo una diffusa e marcata prevalenza di ipovitaminosi D, in particolare l’Italia è considerata un paese a rischio nei mesi invernali essendo compresa nella “ vitamin D winter area (lat. 37° Nord)”, nella quale durante la stagione invernale l’organismo non sintetizza vitamina D3 in quantità sufficiente.
Il deficit conclamato o subclinico di vitamina D è particolarmente comune in tutte le età, ma soprattutto nei soggetti in età evolutiva, nelle persone di pelle scura. Tra gli anziani e i soggetti istituzionalizzati, iponutriti, portatori di malattie croniche specie a carico di reni e fegato (sedi dell’attivazione della vitamina D). Inoltre un deficit può conseguire all’assunzione cronica di steroidi o di farmaci antiepilettici e a patologie che determinano malassorbimento intestinale.
Oggi il nostro rapporto con il sole è piuttosto contradditorio, perché da un lato temiamo i danni derivanti da un’eccessiva esposizione solare, ma dall’altro cominciamo a prendere coscienza di come alcune nostre abitudini (lavori in ambienti con luce artificiale, esposizione a smog e inquinanti, utilizzo di creme solari sempre più protettive) ci stiano allontanando dall’unica fonte naturale di vitamina D che ci ha accompagnato nel corso dell’evoluzione.
Dieta molecolare
La dieta molecolare propone un nuovo approccio alla lotta contro il sovrappeso e l’obesità: secondo questo indirizzo non è necessario limitare le calorie e gli alimenti in genere con lo scopo di perdere peso. Bisogna invece scegliere le molecole contenute nei cibi che assumiamo. Ad illustrare i dettagli della dieta molecolare è stato Pier Luigi Rossi dell’Università di Bologna, Specialista in Scienza dell’Alimentazione e in Igiene, in occasione del recente Congresso Nazionale della SIME (Società Italiana di Medicina Estetica). Secondo questo nuovo approccio, un piatto di pasta, una birra o una porzione di formaggio, possono dare lo stesso numero di calorie, ma i loro principi nutritivi reagiscono diversamente all’interno dell’organismo. La genomica nutrizionale ha dimostrato che i carboidrati, i grassi, le proteine, le vitamine, i sali minerali, l’acqua (le molecole contenute negli alimenti) interagiscono con il nostro DNA e stimolano l’organismo a metter peso o a perderlo agendo direttamente sull’attività dei geni. Di conseguenza seguire una dieta molecolare significa non dar peso alle calorie, ma controllare la composizione molecolare di un piatto e al modo con cui le varie molecole influenzano l’azione di tre ormoni chiave: insulina, cortisolo e glucagone.
Un modello dietetico molecolare tende quindi a tenere sotto controllo gli sbalzi della glicemia (un aumento della glicemia infatti provoca un aumento dell’insulina che gioca un ruolo chiave nell’accumulo di adipe), ad attivare il glucagone (l’ormone del digiuno, che favorisce il mantenimento nella norma dei livelli di insulina), a limitare l’aumento dei valori del cortisolo (l’ormone dello stress che può influenzare negativamente l’equilibrio e le funzioni intestinali). In realtà ogni volta che mangiamo siamo diversi da prima del pasto, perché i nutrienti che ingeriamo (esempio: i carboidrati della pasta o le proteine della carne e del formaggio) condizionano alcuni valori del sangue. Mangiare un piatto di pasta genera un aumento della glicemia e dell’insulina. Mangiare formaggio genera invece un aumento di aminoacidi e acidi grassi nel sangue. A seconda della composizione dei cibi, quindi, avviene a livello intestinale un assorbimento di molecole nutrienti che condiziona i livelli di glicemia, lipemia, di aminoacidi, minerali, vitamine e molecole capaci di agire di modulare il nostro DNA.
Nel volume “Dalle calorie alle molecole” (edito da Aboca s.p.a. -2014) Pier Luigi Rossi evidenzia un decalogo del metodo molecolare per favorire il dimagrimento in maniera salutare ed evitare, allo stesso tempo, le condizioni che potrebbero far bloccare la perdita di peso:
- Scegliere i cibi in modo da controllare il picco glicemico, insulinemico e lipemico post-prandiale.
- Assicurare una dose adeguata di modulatori genici attivi sul DNA (genomica nutrizionale). Gli ortaggi e la frutta contengono molecole protettive della funzione e integrità dei geni contenuti nei cromosomi di ogni cellula (polifenoli, carotenoidi, antociani, flavonoidi, catechine).
- Evitare la chetosi, considerata un’emergenza energetica che, se protratta, è patologica.
- Garantire un’adeguata e continua dose di glucosio al cervello e a tutte le cellule per la formazione di acidi nucleici (DNA e RNA), e per garantire l’integrità della matrice extra cellulare e del tessuto connettivo.
- Mantenere uno stato alcalinizzante e antiossidante per tutte le cellule.
- Scaricare il fegato dall’eccesso di glicogeno e grassi.
- Dimagrire perdendo solo massa grassa (senza intaccare la massa magra muscolare e senza perdere acqua e massa ossea), evitando la sindrome da adattamento metabolico che porta al blocco della perdita di peso in breve tempo.
- Gestire l’igiene e il benessere intestinale.
- Garantire un dimagrimento graduale e continuo fino al raggiungimento del personale peso forma.
- Mantenimento del peso forma raggiunto.
Ammine eterocicliche e sicurezza alimentare
Le ammine eterocicliche ( HA ) sono molecole polari a potere mutageno e oncogeno di peso molecolare 200g/mol e punto di fusione a 300°C. Durante la cottura domestica degli alimenti, nella ristorazione collettiva e nei trattamenti termici industriali, i metodi, i tempi e le temperature di cottura, le modalità di trasferimento del calore e la composizione degli alimenti, influenzano la formazione delle HA. Sin’ora sono state isolate 25 differenti HA negli alimenti ad elevato tenore proteico (carne, pesce e sughi di cottura) e strutturalmente presentano 2-3 anelli ciclici e un ammino gruppo esociclico legato ad uno degli anelli. Lo IARC (Agenzia Internazionale per la ricerca sul cancro) ha classificato le HA come possibili e probabili oncogeni per l’uomo.
In base alla struttura sono stati identificati 5 gruppi: a)imidazo-quinoline (IQ), b)imidazo-quinoxaline (IQx), c)imidazo-piridine (IP), d)furoimidazo-piridinde, e)amino-carboline.
Uno studio dettagliato su queste molecole e la loro attività è stato effettuato dal Dipartimento di Medicina Veterinaria e Produzioni animali dell’Università degli Studi Federico II di Napoli da R.Mercogliano-N.Murru-A.De Felice e pubblicato sul N° di Maggio 2014 del periodico “Industrie Alimentari”.
Lo studio esamina le varie combinazioni di cottura che determinano la formazione di HA ed è stato rilevato un sensibile incremento di queste molecole in seguito a temperature superiori a 200°-250° (frittura, grigliatura, cottura su barbecue). Il consumo di carni nei fast food si associa d un minor rischio di esposizione alle HA perché i tempi di cottura richiesti sono più brevi con temperature più facilmente controllabili. Nel caso di carni processate in microonde la precottura di 2 minuti (effettuata prima della cottura con altri metodi consente una diminuzione del 90 % delle concentrazioni di HA e una elevata rimozione dei precursori attraverso l’eliminazione dell’acqua.
L’uso come ingredienti di essenze vegetali (timo, rosmarino) ricche di terpeni, potenti antiossidanti naturali, rallenta l’inizio dei fenomeni ossidativi e inibisce l’idrolisi dei fenoli. Lo stesso dicasi per l’aggiunta di cipolla (30 g per ogni 100 g di carne), aglio (15 g per ogni 100g), marinature debolmente acide (aceto, limone, zucchero di canna, olio d’oliva per 4 ore con petto di pollo di 125g grigliato su barbecue). Il burro come grasso di frittura comporta un maggior produzione di ammine, mentre l’uso di olio ad elevato tenore in fenoli e antiossidanti (olio extra vergine di oliva) contribuisce a ridurla. L’aggiunta di carboidrati complessi leganti l’acqua migliora il legame acqua-proteine e riduce le concentrazioni di HA e l’assorbimento intestinale. E’ importante anche l’aerazione dei locali di cottura, perché nei fumi di frittura della carne sono presenti HA. Nei sughi di cottura e negli estratti di carne è sempre consigliabile la scelta di temperature inferiori a 100°. L’allontanamento dei liquidi di cottura e l’utilizzo di brodi o sughi di cottura preparati a parte, garantiscono maggior sicurezza nel consumo di piatti di carne. Cercare di evitare sbalzi termici in corso di grigliature e cottura al barbecue delle carni.
Per il momento non è ancora stabilita la dose massima giornaliera di HA negli alimenti e non è stato effettuato un completo monitoraggio dei livelli di ammine presenti nelle carni sottoposte a cottura. Pertanto nella ristorazione collettiva e nei trattamenti industriali va raccomandata l’applicazione di buone pratiche di produzione e la formazione del personale. Inoltre è importante informare anche il consumatore sulle corrette modalità di cottura per garantire una maggior sicurezza alimentare.
Riso bianco, rosso e nero
Sebbene l’Italia abbia il primato europeo della coltivazione del riso (230 mila ettari di risaie di cui il 90 % nelle sole province di Vercelli, Novara e Pavia), i consumi sono piuttosto scarsi: 5,6 Kg annui pro-capite (abbiamo una predilezione per la pasta: 28 Kg).
Il riso è il cereale più apprezzato nel mondo: sfama 3 miliardi di persone, per cui le varietà coltivate sono numerosissime. I grandi risi italiani (Carnaroli, Arborio, Vialone) appartengono alla varietà Japonica e sono i più adatti per preparare i risotti, ma nel resto del mondo il riso è cucinato soprattutto in altri modi.
Prima di diventare un alimento base della dieta comune, il riso in Italia era considerato una spezia, un medicamento capace di risolvere affezioni gastriche e intestinali: si utilizzava anche macinato, come la farina di grano, per preparare il “bianco mangiare” unitamente alle mandorle. La grande diffusione si è avuta dopo la costruzione del canale voluto dal nostro Camillo Benso di Cavour.
Ancora oggi molti ricordano il “riso in bianco” prescritto dal medico come terapia in caso di patologie a carico dell’apparato gastro-enterico. I pediatri apprezzano questo cereale perché è facilmente digeribile e assimilabile in quanto povero di cellulosa. Infatti tuttora si consiglia alle mamme di diluire il latte ai bambini già nel primo trimestre di vita, anziché con acqua, con mucillagine di riso (cioè l’acqua proveniente dal riso bollito) perché i granuli di amido hanno dimensioni molto piccole (circa 10 micron) rispetto a quelli di altri cereali.
Al recente convegno che si è svolto al Dipartimento di Scienze del Farmaco di Novara (Università del Piemonte Orientale) Paolo Carrà, Presidente dell’Ente Nazionale Risi ha detto che in Europa l’Italia è anche al vertice per la ricerca sul riso. Oggi infatti sono di grande attualità i risi pigmentati (riso nero, riso rosso) che per ora rappresentano solamente lo 0,3 % della produzione risicola, ma nei prossimi anni sono destinati a conquistare un numero sempre maggiore di consumatori. Appartengono ai “functional food”, i cosidetti cibi funzionali, come ha sottolineato Aldo Martelli, Presidente dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale, rimarcando gli effetti benefici di questi risi contenenti antociani, con alto potere antiossidante.
Una varietà recente realizzata nel 1997 e coltivata principalmente nelle province di Vercelli e Novara è il riso “Venere” dal pericarpo nero ottenuto dall’incrocio con una varietà asiatica (che in Italia era inadatta al clima) con varietà nostrane. Il riso “nero” in Cina era coltivato in passato esclusivamente per l’imperatore e la sua corte perché era ritenuta una specialità di particolare valore nutritivo. In realtà presenta contenuti apprezzabili di sali minerali, ma soprattutto è l’elevato contenuto in antociani (che sono i pigmenti che danno la colorazione al pericarpo) i quali sono molecole dotate di elevato potere antiossidante, quindi preposte alla difesa del nostro organismo. Un’altra caratteristica è l’aroma che sprigiona durante la cottura per la presenza di composti organici (esteri) che profumano di pane appena sfornato. Ovviamente richiede una tecnica culinaria diversa con un maggior tempo di cottura.
Il riso pigmentato di rosso invece è una specie presente da millenni soprattutto nell’Africa Occidentale: Questo cereale era così largamente coltivato che i marinai europei definirono “Costa del Riso” la regione che va dal Senegal alla Costa d’Avorio. Oltre un terzo degli schiavi portati nel Nuovo Mondo provenivano dalla Costa del Riso e coltivarono poi quello rosso come il loro cibo preferito. In seguito fu sostituito da quello asiatico, perché dava una maggior resa. Solamente all’inizio del XX secolo i botanici dimostrarono che il riso africano (Oryza glaberrima) è una specie unica e distinta da quella asiatica (Oryza sativa).
Il colore rosso del rivestimento è ricco di polifenoli dotati di attività antiossidante paragonabili a quelli della vite. In Italia è conosciuto come riso “Ermes”:Viene coltivato nel Novarese, a Casalbeltrame. Ci sono anche integratori a base di riso rosso fermentato (grazie all’azione del lievito “monascus purpureus” come rimedio per ridurre il colesterolo.
Esiste anche un riso verde (detto riso selvatico – specie “Zizania aquatica”) originario del Canada e presente negli Stati Uniti. Sprigiona un intenso odore di tè e di erbe aromatiche. Si gusta in brodo, abbinandolo alla selvaggina o al pesce. In Italia, per ora, non è facilmente reperibile.
Listeria e nanomateriali
Sono in arrivo nuovi materiali a base di nano particelle in grado di neutralizzare la “listeria” un pericoloso batterio presente in molti alimenti e diffuso in tutto il mondo.
I nano materiali sono strutture di dimensioni infinitesimali dell’ordine del miliardesimo di metro. Le nano particelle entrano nell’organismo umano (pelle, intestino, cervello, cellule del sangue) molto più facilmente della maggior parte di materiali simili e possono essere utilizzate per cambiare il sapore, il colore, la struttura del cibo.
Non è ancora stata trovata una definizione accettata da tutti. Le regole in vigore dell’Unione Europea definiscono come nanomateriale “ingegnerizzato” il materiale prodotto artificialmente di dimensioni inferiori ai 100 nm (nanometri). La Commissione ha proposto una definizione più precisa, specificando che un nano materiale dovrebbe essere costituito almeno dal 50 % di particelle di dimensioni comprese tra 1 e 100 nanometri. Il Parlamento Europeo ha respinto questa definizione, in quanto consentirebbe di esentare molti cibi contenenti nano particelle, e già sul mercato, dall’obbligo di mostrare sull’etichetta i requisiti richiesti dalla normativa vigente.
L’Autorità Europea per la sicurezza alimentare ha indicato come soglia limite di contenuto di nano particelle, il 10 %.
Come nell’elettronica, anche nella nanomedicina si utilizza il silicio (ossido di silicio) che è economico ed estremamente versatile. In particolare, è molto poroso, come una spugna con tante “tasche”, e riesce a contenere sostanze diverse, oltre ad essere biodegradabile. L’obiettivo è di usare le nano particelle come un cavallo di troia per trasportare particolari molecole nelle cellule infettate.
I ricercatori della Rensselaer Polytechnic Institute di Troy (New York)hanno messo a punto un metodo in grado di sfruttare le potenzialità dei nano materiali e le caratteristiche di alcuni enzimi. L’abbinamento di questi elementi sembra garantire l’eliminazione rapida della Listeria e, potenzialmente, con piccoli aggiustamenti, anche di altri batteri.
Il metodo si basa sull’utilizzo di nano particelle di silice (già approvate dalla Food and Drug administration) cui vengono fatte aderire ( tramite una sorta di ponte costituito da una proteina ad alta affinità per il maltosio) delle molecole di un enzima chiamato “Ply500”, in grado di distruggere la Listeria. Il “Ply500” deriva dai batteriofagi, organismi che in natura riescono ad entrare nella cellula batterica, riprodursi e uscire attraverso veri e propri buchi praticati nella parete batterica creati proprio grazie ad enzimi come il “Ply500”.
Le nano particelle ricoperte da Ply500 formano una pellicola (ma anche uno spray o una polvere) che a contatto con una qualunque superficie (in questo caso un alimento) e potenzialmente in tutte le fase del packaging, distrugge le varie specie di Listeria in pochi minuti. Il potere distruttivo è stato confermato su cibi dove erano presenti oltre 100.000 unità di Listeria per millilitro (un quantitativo superiore rispetto a quello di norma sufficiente a causare un’intossicazione).
Come sottolineato nello studio pubblicato su “Scientific Report- del gruppo Nature) il dato forse più interessante è che la metodologia potrebbe essere applicata su qualunque tipo di contaminazione batterica, modificando l’enzima litico legato alle nanosfere che manterrebbe la stessa efficacia nell’eliminare i batteri patogeni. Il sistema potrebbe rappresentare una valida alternativa ad altri metodi di decontaminazione basati su sostanze chimiche. Inoltre, al posto delle nano particelle di silice, si potrebbero usare quelle di amido, commestibili e già approvate negli Stati Uniti per usi alimentari.
Francesco Cubadda dell’Istituto Superiore di Sanità, ricorda che in Europa, dal 13 Dicembre 2014 tutti gli ingredienti presenti sottoforma di nano materiali ingegnerizzati contenuti negli alimenti dovranno essere indicati nella lista degli ingredienti. Il nome di ciascun ingrediente in nano forma deve essere seguito dalla dicitura “nano”, tra parentesi.
Le prospettive per l’immediato futuro delle nanotecnologie sono numerose: ricordiamo le applicazioni proposte in aree come il “food packaging” (rivolte ad aumentare la shelf-life dei prodotti e per il confezionamento attivo e intelligente), l’incapsulazione di ingredienti attivi (per una maggiore stabilità e miscibilità), la formulazione di nutrienti con aumentata biodisponibilità.
C’è un importante gap conoscitivo da colmare nel più breve tempo possibile, perché se le nanotossicologia cammina, le nanoscienze e le nanotecnologie galoppano
Nutrizione e salute R. Pellati - Anno 2014 Numero 3
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Claims nutrizionali e salutistici
Abstract
La ricerca scientifica ha da anni evidenziato che alcune sostanze nutritive hanno un effetto positivo sulla salute umana e negli ultimi anni si è assistito ad un crescente numero di prodotti che richiamano, in etichetta o attraverso la pubblicità, queste sostanze attraverso informazioni nutrizionali. Gli alimenti commercializzati con queste caratteristiche possono essere percepiti dal consumatore come portatori di un beneficio nutrizionale, fisiologico o, in generale, positivo per la salute e ciò crea un evidente vantaggio commerciale per alcuni produttori. La Commissione Europea è perciò intervenuta al fine di garantire la correttezza negli scambi commerciali, difatti la presenza di differenti disposizioni nazionali relative alle indicazioni nutrizionali e sulla salute, può impedire la libera circolazione degli alimenti. Sono stati quindi stabiliti i principi generali, applicabili per la pubblicità ed etichettatura di questa particolare tipologia di alimenti, al fine di garantire un elevato livello di tutela dei consumatori e la piena consapevolezza delle scelte di acquisto.
REGOLAMENTO UE 1169/2011 ETICHETTE ALIMENTARI APPLICAZIONE
Abstract
Il legislatore Comunitario ha inteso novellare e aggiornare la normativa relativa alle etichette alimentari attraverso il Regolamento UE 1169/2011. Lo scopo primario delle nuove disposizioni è quello di “ rafforzare la certezza giuridica e garantire un’applicazione razionale e coerente” ( Considerando 9). Tale Regolamento è entrato in vigore trascorsi venti giorni dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, ovvero in data 22 novembre 2011. Del pari troverà applicazione dal 13 dicembre 2014. Ciò con alcune eccezioni, quali ad esempio quelle inerenti all’obbligo di indicazione della dichiarazione nutrizionale che slitterà, invece, al 13 dicembre 2016. Pertanto, in conseguenza di quanto sopra esposto, dal dicembre 2014 le etichette dei prodotti alimentari dovranno essere rivedute e stampate con le indicazioni delle informazioni e delle diciture previste obbligatoriamente dalla legge. Sembra, dunque, apprestarsi una rivoluzione per le etichette alimentari che dovranno essere predisposte in base a criteri di trasparenza e di chiarezza al fine della salvaguardia della salute dei consumatori. In merito ai contenuti e ai scopi del Regolamento UE 1169/2011, si osserva che il medesimo appare di più ampia portata rispetto alla normativa previgente in materia di etichettatura e consacrata nella Direttiva 2000/13 CE. Il Regolamento del 2011, oltre a rinnovare l’assetto normativo, intende garantire la “sicurezza informativa” di cui le etichette risultano componenti fondamentali, anche se non esclusive.