Anno 42/Numero 2
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Fibre alimentari: sempre più importanti
Al 73° Congresso dell’American Diabetes Association, Angela Albarosa Rivellese membro della SID (Società Italiana di Diabetologia) e Docente di Medicina Interna (Università Federico II di Napoli) ha tenuto una lettura sugli effetti delle diete ricche in fibre vegetali nei confronti delle alterazioni metaboliche che caratterizzano la fase post-prandiale. Il periodo post prandiale può rappresentare una condizione di rischio aggiuntivo per il diabete e le malattie cardiovascolari, viste le alterazioni che si producono a livello della glicemia e dei trigliceridi. Quando si assume un pasto (anche nella persona normale) si assiste ad un fisiologico aumento della glicemìa, dell’insulina e dei lipidi (trigliceridi). Ovviamente se l’alimentazione è ricca di carboidrati semplici e di grassi, gli aumenti sono più marcati, con rischio aumentato di malattie croniche come obesità e diabete. Assumendo una dieta ricca in legumi, cereali integrali, frutta e vegetali (quindi più ricca in fibre) si osserva una riduzione della glicemìa e dei trigliceridi rispetto ai soggetti che assumono una dieta povera di fibre. Le fibre riducono la glicemìa nella prima parte del periodo post-prandiale, mentre a distanza di 5-6 ore dal pasto mantengono la glicemìa a livelli leggermente più elevati; questo è importante per i soggetti colpiti da diabete perché aiuta a prevenire le ipoglicemie tardive post-prandiali, frequenti nei diabetici in trattamento. In altre parole le fibre mantengono la curva della glicemìa post-prandiale più piatta. Inoltre a livello intestinale le fibre possono formare delle soluzioni viscose e quindi ritardare l’attacco dei carboidrati da parte degli enzimi intestinali. Permanendo più a lungo nell’intestino, questi carboidrati possono influenzare la secrezione di alcuni ormoni intestinali, quali colecistochinina e GLP-1, che vanno ad influenzare il senso di fame. Dopo un pasto ricco di fibre, infatti, aumenta il senso di sazietà. Le fibre inoltre distendono lo stomaco e rallentano lo svuotamento gastrico. Nell’ultima parte dell’intestino le fibre sono attaccate dagli enzimi digestivi e questo va ad influenzare favorevolmente la microflora intestinale (il cosidetto microbiota), facendo prevalere i batteri dotati di effetti favorevoli contro l’obesità, il diabete, e le altre malattie metaboliche. Le fibre, attaccate dai microbi intestinali, producono anche acidi grassi a catena corta, che a loro volta hanno un effetto favorevole sul controllo della fame e migliorano il controllo glicemico e il metabolismo dei lipidi. Le fibre presenti nei legumi, nella frutta, nella verdura sono prevalentemente idrosolubili e migliorano la glicemìa post-prandiale. Gli studi più recenti dicono che anche le fibre insolubili (presenti nei cereali integrali) sono in grado di provocare una riduzione sia dell’insulina che dei trigliceridi in fase post-prandiale. L’apporto consigliato di fibre per la popolazione generale è di 30-35 g al giorno: vale a dire, un piatto di legumi o di pasta e legumi 2-3 volte la settimana, uno o due abbondanti piatti di verdura nella giornata e due –tre porzioni di frutta al giorno.
Parassitosi alimentari e animali selvatici
Numerose persone sono convinte che la carne degli animali selvatici o che vivono allo stato brado, sia sicura in quanto esente da trattamenti farmacologici e priva di sostanze chimiche. Purtroppo la realtà è diversa: la migliora sicurezza alimentare si ottiene proprio consumando alimenti provenienti da animali sottoposti a “regimi” di prevenzione, con un controllo sanitario veterinario costante. Molto importante è anche il controllo pre e post macellazione per scoprire la presenza di malattie a carattere zoonotico e capire se gli animali sono sottoposti a trattamenti farmacologici non consentiti. Un altro aspetto da considerare è il fatto che zoonosi come la trichinellosi, la brucellosi, la cisticercosi,sono poco conosciute dai medici a causa della loro ridotta frequenza, ed è difficile che capiti nella loro vita professionale di imbattersi in qualche persona affetta da tali patologie. La situazione è resa più complicata dal fatto che queste malattie a volte possono confondersi con banali disturbi tipo influenza o gastroenterite. In questi casi quando si riesce a fare una diagnosi differenziale corretta può essere troppo tardi, e la malattia può avere un decorso grave. Questi controlli servono anche per capire lo stato di “salute ambientale” dato che i cinghiali sono particolarmente esposti a sostanze pericolose. Recentemente infatti sono stati resi noti i risultati della ricerca di Cesio radioattivo nei tessuti di alcuni cinghiali che vivevano in Valsesia (provincia di Vercelli) da cui risulta che la sua concentrazione è superiore anche di dieci volte rispetto ai livelli tollerati. L’ipotesi più probabile è che la Valsesia fu investita dalla nube fuoriuscita dalla centrale nucleare di Chernobyl con la conseguente caduta sul terreno di elementi radioattivi come il Cesio che, purtroppo, rimangono inalterati per moltissimi anni. Alcuni vegetali (soprattutto i funghi) hanno una elevata capacità di assorbire il Cesio e altri elementi. I cinghiali si nutrono esclusivamente di alimenti che trovano in natura e non hanno alcuna possibilità di evitare il consumo di prodotti contenenti radionuclidi. Ovviamente gli animali più “anziani” dovrebbero essere quelli più contaminati. In mancanza di informazioni più precise e dal titolo del tutto precauzionale si suggerisce di limitare il consumo di carne di cinghiale proveniente dalla zona “contaminata”e soprattutto dei vegetali che crescono spontanei nella stessa area.
Innovazioni e ricerche per le insalate di IV gamma
I prodotti di IV gamma (ortaggi già lavati e porzionati in sacchetti di pronto utilizzo) rappresentano un vero e proprio fenomeno all’interno del mercato ortofrutticolo mondiale. Questa innovazione ha visto una prima espansione nei paesi anglosassoni, USA e Gran Bretagna in testa, estendendosi poi a tutta l’Europa. L’Italia è il secondo mercato europeo e registra un volume di affari di circa 900 milioni di euro: il 92 % degli acquisti riguarda le insalate miste. Nel 2011 ogni famiglia ha acquistato 3,7 Kg di questi prodotti (soprattutto verdure), ma negli ultimi tempi anche frutta. In questo settore “Agroinnova”, il Centro di Competenza per l’innovazione in campo agro-ambientale e agro-alimentare dell’Università di Torino, diretto da Maria Lodovica Gullino (coadiuvata dal Presidente Angelo Gariboldi e da 26 componenti tra eminenti ricercatori italiani e stranieri) lavora dall’inizio del 2000 conducendo un’importante attività di ricerca in stretta collaborazione con il comparto produttivo. E’ sede della Presidenza dell’International Society for Plant Pathology e dell’Associazione Italiana delle Società Scientifiche Agrarie (AISSA). In particolare, gli impianti fuori suolo e le nuove serre tecnologicamente avanzate hanno permesso di condurre sperimentazioni che consentono di mettere a punto metodi di difesa molto innovativi, talora basati su prodotti naturali a loro volta derivanti da processi industriali. La ricerca ha consentito di rilevare la comparsa di nuovi parassiti (in prevalenza terricoli, come la tracheofusariosi presente su lattuga e rucola, e fogliari, come l’alternariosi e peronosospora su rucola e basilico) e che gli agenti causali responsabili di numerose patologie vengono trasmessi per seme. Ciò significa che l’uso di semente infetta, anche con valori di infezione molto bassa, dell’ordine di pochi semi su migliaia, porta ad una rapidissima diffusione del patogeno. Al tempo stesso, la concia del seme, effettuata con mezzi chimici (fungicidi), fisici (termoterapia) e biologici o naturali (microrganismi antagonisti, estratti di olii essenziali), consente di ridurre fortemente la gravità e la diffusione in nuove aree della malattia. Di conseguenza grande interesse è rivolto all’impiego della resistenza genetica con il ricorso a cultivar resistenti ai patogeni terricoli e fogliari. La difesa in campo si deve basare sull’adozione di tutte quelle pratiche colturali (ventilazione del tunnel, corretta spaziatura delle piante, concimazioni limitate) atte a mantenere condizioni ambientali e pedologiche non predisponenti allo sviluppo dei parassiti. Un ulteriore aspetto è la tutela del consumatore, con particolare attenzione all’assenza sia di residui di agro farmaci, sia di contaminazione di patogeni (Salmonella, Escherichia coli) derivanti da deiezioni animali (soprattutto ruminanti) e umane.
Sostenibilità nutrizionale
Il VII Forum Internazionale di Nutrizione Pratica “NUTRIMI” che si è svolto a Milano ha approfondito alcuni aspetti della Sostenibilità Nutrizionale per una prospettiva alimentare durevole rivolta a tradurre le scoperte della Scienza in soluzioni adatte a migliorare la qualità della vita. Per anni abbiamo vissuto nella consapevolezza che gli alimenti prodotti dall’agricoltura erano, per quantità, sufficienti a sfamare l’intera popolazione del pianeta. Negli ultimi tempi invece si sta profilando all’orizzonte il dibattito sui limiti dello sviluppo. Infatti mentre tra il 1970 al 2010 l’incremento della produzione di cereali nel mondo triplicava, a fronte di una popolazione che raddoppiava, ora l’incremento della produzione è sempre più modesto (1,5 % nelle previsioni OCSE-FAO per il decennio 2010-2020), mentre la popolazione continua ad aumentare (9 miliardi nel 2050). A questo si aggiungono: il cambiamento climatico, le modificate abitudini alimentari dei paesi emergenti che consumano più carne, l’uso dei cereali per produrre bioenergia, mentre non cresce la superficie arabile del pianeta. In altre parole la terra sta diventando una risorsa scarsa. Secondo Claudia Sorlini, della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Milano (Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari) per produrre cibo in quantità sufficiente ai fabbisogni e garantirne la qualità nutrizionale e organolettica oggi occorre porre attenzione al contesto ambientale attraverso la conservazione dei suoli, l’uso razionale delle acque e il risparmio energetico accompagnato dallo sviluppo delle energie rinnovabili. Il consumo virtuale di acqua nella produzione di alimenti è enorme. In media nel pianeta per produrre 1 Kg di grano e 1 di carne bovina si impiegano rispettivamente 1.827 e 15.467 litri di acqua e per ogni goccia di caffè sono indispensabili 1100 gocce di acqua. Questo consumo viene definito “water footprint” (impronta idrica, vale a dire il volume di acqua virtuale di origine diversa necessari per produrre l’alimento lungo tutta la filiera). In realtà si può risparmiare acqua in agricoltura attraverso sistemi di irrigazione più virtuosi e nell’industria alimentare attraverso processi di riciclo dell’acqua. La riduzione degli sprechi alimentari (1,3 miliardi di tonnellate, secondo la FAO) comporta anche un risparmio idrico. Anche la domanda di energia è in continua crescita e per questo motivo sono in aumento gli investimenti in energie rinnovabili e l’accorciamento della distanza tra i luoghi della produzione di alimenti e quelli di consumo. L’agricoltura biologica contribuisce a ridurre gli sprechi dei consumi energetici e dei prodotti agro-chimici, ma in Italia e in Europa rappresenta ancora un settore di nicchia. Per Aurelio Angelini, dell’Università degli Studi di Palermo (Comitato Scientifico UNESCO) la Sostenibilità Alimentare consiste nell’essere capaci di vivere entro le capacità di carico del sistema di cui si fa parte, e il pianeta oggi necessita di nuove modalità di consumo. Solo di recente alcune catene di supermercato (che abitualmente moltiplicano le alternative di acquisto) hanno iniziato ad esercitare un ruolo importante di sensibilizzazione al problema. In Italia infatti fino a ieri si assisteva all’aumento del consumo di proteine nobili, della spesa dei pasti fuori casa, riduzione dell’incidenza degli alimentari sui consumi totali: oggi si raccomanda il ritorno alle tradizioni alimentari caratteristici della Dieta Mediterranea, si assiste all’aumento degli agriturismi, alle mense che propongono prodotti “bio”, proposte innovative come i mercatini, i punti vendita diretti, l’incremento delle “S” ( sapere-sapore-salute-supernaturalità-storia-socialità-status symbol). In altre parole, si fa strada il concetto che il consumatore dev’essere riflessivo, critico, e quindi consapevole. Marco Trevisan, dell’Università Cattolica di Piacenza (Istituto di Chimica Agraria e Ambientale) ha rilevato che oggi sono sempre più numerose le aziende che si impegnano nell’analisi e nella riduzione dell’impatto ambientale, però è necessario che tale impegno sia comunicato ai consumatori affinchè questi possano essere coinvolti attraverso le scelte ambientali, dato che i cittadini sono sempre più interessati alle tematiche legate alla sensibilità ambientale. Oggi alcuni Paesi hanno lanciato dei programmi per la promozione delle “etichette ambientali”. L’Inghilterra ha promosso l’etichetta “Carbon Label” che prende in considerazione un unico parametro: le emissioni di gas serra. La Francia ha proposto un’etichetta ambientale multricriterio (giudicata positivamente dalla Commissione Europea) che prende in considerazione diversi parametri: emissioni di gas serra, impatto sulla risorsa idrica, biodiversità e salvaguardia del suolo. In Italia nasce l’etichetta “ambientale”, frutto della collaborazione tra l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la società di consulenza Sprim Italia. Applicata direttamente sulle confezioni dei prodotti di largo consumo, l’Etichetta permette di conoscere, in maniera intuitiva ed immediata, l’impatto ambientale dei prodotti acquistati. Viene valutato il contributo di tutti i processi che compongono la filiera produttiva, dall’estrazione delle materie prime fino all’utilizzo o allo smaltimento finale del prodotto e degli imballaggi. Al momento dell’acquisto il consumatore può conoscere sia l’impatto complessivo del prodotto (indicato su una scala di colore variabile) sia sulle tre categorie (acqua, aria, suolo) più coinvolte: il consumatore può orientare le proprie scelte verso prodotti più “environmentally friendly”. Andrea Ghiselli, Dirigente INRAN e presso il CRA (Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura) ha presentato un dossier sul ruolo della carne nell’ambito dell’apporto nutrizionale, culturale, della sicurezza alimentare, e dell’impatto ambientale. L’obiettivo è stato quello di fare chiarezza e di sfatare i miti attraverso una radicale rivalutazione dell’impatto ambientale della carne. Con il suo elevato apporto proteico, la carne è una delle fonti di amminoacidi essenziali utili per una sintesi proteica efficace ed efficiente, in quanto con una piccola porzione ne apporta in quantità sufficiente per i fabbisogni di un pasto, senza gravare sull’assunzione calorica e lipidica. Non è vero inoltre che l’apporto di proteine presenti in una miscela di cereali e legumi (esempio: pasta e fagioli) sia equivalente alle proteine presenti in una porzione di carne. Per coprire le richieste di metionina e cisteina (amminoacidi limitanti) bisogna ricorrere ad un maggior apporto calorico. Esempio: una porzione di pasta e fagioli (80 g di pasta cruda e 40 g di fagioli cannellini secchi) danno 354 kcalorie, mentre una porzione di 70 g di carne danno 77 kcalorie. Allo stesso modo, l’apporto di minerali quali ferro e zinco in forma altamente biodisponibile è una delle caratteristiche nutrizionali di carni e derivati, insieme alla esclusiva peculiarità di fornire vitamina B12 irreperibile negli alimenti vegetali ed essenziale durante tutte le fasi della vita.
Nutrizione e salute R. Pellati - Anno 2013 Numero 2
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La sicurezza alimentare in ambito volontario
La normativa comunitaria in materia di sicurezza alimentare dopo il 2000 ha subito profondi cambiamenti, sulla spinta anche di alcune crisi alimentari che hanno minato fortemente la fiducia dei
consumatori. Pertanto in Europa abbiamo un quadro normativo integrato che pone la sicurezza alimentare quale principale obiettivo del diritto comunitario. La stessa sensibilità è maturata anche in ambito volontario a livello internazionale, con la famiglia di norme ISO 22000, che rappresenta un adeguato mezzo propedeutico nei confronti del rispetto per le leggi e di stimolo al miglioramento continuo delle prestazioni in tema di sicurezza alimentare.
Le certificazioni nel mercato agro-alimentare
Riassunto
Nell’ambito del settore agroalimentare l’esigenza di avere la disponibilità di alimenti sicuri e di qualità ha favorito la necessità e il successo del sistema delle certificazioni. Tale sistema è volto a fornire la garanzia del rispetto di determinati standard al fine di assicurare la presenza delle caratteristiche ricercate dai consumatori. Quest’ultimi, invero, richiedono sempre maggiore sicurezza riguardo i prodotti che acquistano. La globalizzazione dei mercati, la mancanza di conoscenza e di relazione diretta tra i produttori e i stessi consumatori, nonché la realizzazione di nuovi alimenti ha favorito il dilatarsi degli acquisti in località molto distanti rispetto ai luoghi di produzione dei prodotti. La fiducia della clientela che prima era determinata dal rapporto confidenziale tra il produttore e l’acquirente ora viene ottenuta attraverso le certificazioni. Le aziende, infatti, allo scopo di guadagnare la predetta fiducia e di fidelizzare gli acquirenti si rivolgono ad organismi accreditati che accertano la conformità dei loro prodotti a precisi standard e a specifici protocolli. All’esito positivo della verifica viene rilasciata una certificazione rivolta sia ad attestare la predetta conformità e sia provare l’attendibilità e l’affidabilità delle stesse aziende.
Il significativo riscontro dei marchi di certificazione da parte dei consumatori trova ragione nel fatto che tali marchi vengono ritenuti elementi variabili fondamentali per orientare gli acquisti. Il sistema certificativo, infatti, è in grado di rassicurare gli acquirenti finali, non solo riguardo la certezza della qualità, ma anche sulla sicurezza dei prodotti.
Utilizzo di Chitosano per il controllo di patologie post-raccolta in cultivar di ciliegio
Riassunto
Le ciliegie sono sovente soggette, durante la conservazione, a infezioni fungine che possono determinare gravi perdite di prodotto. Si rendono pertanto necessari interventi che siano compatibili con le norme vigenti e nel contempo risultino efficaci nella difesa dei frutti. In quest’ottica risultano interessanti sostanze di origine naturale che non lasciano residui tossici sul prodotto trattato. Fra queste si colloca il chitosano. La prova, con un formulato commerciale (Chitoplant - Agritalia all’1%), è stata effettuata in un impianto in Piemonte e ha riguardato due cultivar. Il trattamento è stato effettuato 14 e 7 giorni prima della raccolta. Allo stacco, campioni di frutti trattati e non trattati sono stati posti in cella frigorifera (1°C; 95% U.R.) per quattro settimane. Settimanalmente sono stati valutati: incidenza dei marciumi (%), perdita di peso (%), colore (L, h), consistenza della polpa (durometro Shore A, H), r.s.r. (°Brix) e acidità titolabile (meq/l). Alla raccolta e al termine del periodo di conservazione, sono anche state effettuate valutazioni relative alla componente nutraceutica dei frutti. Il prodotto utilizzato non è risultato né migliorativo né peggiorativo per quanto concerne le caratteristiche organolettiche, ma ha determinato lieve anticipo di maturazione. L’incidenza di marciumi è risultata differente e variabile nelle due cultivar. Tuttavia, considerando l’intero periodo di stoccaggio, la percentuale di frutti affetti da marciumi è risultata nettamente più elevata nelle ciliegie testimone, il che induce a concludere che il chitosano abbia un effetto protettivo sui frutti anche nel caso di trattamenti di pieno campo. Saranno però necessarie conferme derivanti da ulteriore sperimentazione.
Summary
The effectiveness of chitosan pre-harvest treatment on sweet cherry to control postharvest deseases was determined in Piedmont. Chitosan was applied by preharvest spraying at 1.0% concentration. Sweet cherries of two cultivars were sprayed with chitosan 14 and 7 days before harvest. Untreated sweet cherries were used as controls. Parameters related to quality (firmness, colour, TSS, TA), changes in bioactive compounds (total polyphenols, total anthocyanins and total antioxidant activity) and postharvest deseases (%) were analyzed during 28 days of cold storage at 1°C. The results, although variables, seem to indicate that chitosan treatment is a valid strategy to reduce postharvest decay of sweet cherries.