Anno 41/Numero 1

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Rivista : Anno 41/Numero 1

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Radiocontaminazione nel Settore Zootecnico: attività di ricerca e monitoraggio da Chernobyl ad oggi

Rivista : Anno 41/Numero 1

A partire dal disastro ecologico di Chernobyl si è verificata una radiocontaminazione diffusa delle varie filiere alimentari con rischi per la salute dell’uomo e conseguenze nel comparto zootecnico. Lo scopo del presente lavoro è quello di acquisire una migliore conoscenza sull’evoluzione del fenomeno della contaminazione nel settore zootecnico nell’arco temporale che va dal 1986 ai giorni nostri, studiando le concentrazioni di radioattività in due fasi fondamentali: breve e lungo termine. Nel primo periodo l’attenzione è stata focalizzata sui radionuclidi artificiali che, se introdotti nell’organismo, seguono varie vie: si accumulano in determinati organi critici come lo I-131, oppure si distribuiscono in tutta la massa corporea come gli isotopi di Cs-134 e Cs-137. Lo I-131 domina il quadro dell’inquinamento nella fase iniziale con concentrazione di attività maggiore nel latte fresco della specie ovina e caprina rispetto al latte bovino. Le ricerche effettuate hanno evidenziato anche la contaminazione degli alimenti destinati al consumo animale che costituisce un problema grave poiché i radionuclidi assunti seguono il normale destino dei rispettivi elementi stabili, ritrovandosi nei prodotti alimentari di origine animale destinati all’uomo quali latte e carne. Vengono, inoltre, riportati i livelli della radiocontaminazione nel lungo periodo fornendo anche una prima stima dei valori medi nazionali per i radionuclidi naturali presenti nei campioni di mangimi e foraggi. Insieme al latte, che occupa un posto fondamentale nell’alimentazione umana, sono stati analizzati i principali prodotti del comparto zootecnico monitorando il livello di contaminazione da Cs-137 a partire dal 1986 fino all’anno 2011. Le informazioni acquisite sulla distribuzione della concentrazione degli isotopi del cesio nei vari organi e tessuti hanno dato ulteriore conferma della predilezione del tessuto muscolare, come sito di accumulo, rispetto ad altri organi. Infine, sono stati riportati i risultati di recenti studi condotti sui funghi, prodotti di importazione di origine vegetale. In conclusione le ricerche ed i controlli nel settore della radioecologia e della radiocontaminazione delle filiere alimentari evidenziano la necessità di intensificare gli studi e le attività di sorveglianza nel campo della radioprotezione operativa degli animali e dell’uomo.

Atti del Convegno Radiocontaminazione della Filiera Agroalimentare

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La radioattività presente nell’ambiente può essere di origine naturale e artificiale. Il contributo principale alla dose di origine ambientale, ricevuta da ciascun individuo, deriva dalla radioattività naturale costituita dalla radiazione cosmica (galattica, solare e radionuclidi cosmogenici) e dalla radiazione terrestre (radionuclidi primordiali e radon). La presenza di radioattività di origine artificiale nell’ambiente è causata dalle molteplici attività umane che hanno comportato e comportano l’impiego e la dispersione di materiale radioattivo (per esempio test nucleari in aria degli anni 60 del secolo scorso, produzione e uso di combustibile per impianti nucleari di potenza, vari impieghi di sorgenti radioattive in medicina, nella ricerca, nell’industria). In tali attività sono inclusi gli incidenti ad impianti nucleari che hanno comportato la diffusione di materiale radioattivo su larga scala principalmente Chernobyl e lo scorso anno Fukushima. La dispersione ambientale da rilascio accidentale di materiale radioattivo può costituire un serio problema per la salute della popolazione e solo idonee adeguate e tempestive contromisure possono contribuire alla riduzione del rischio.
L’obiettivo del Convegno “Radiocontaminazione della Filiera Agroalimentare”, organizzato da Fosan a Frascati il 15 Marzo 2012 è stato quello di evidenziare l’approccio alla gestione del rischio radiologico nella filiera alimentare in caso di contaminazione ambientale da radioisotopi artificiali in seguito a rilasci accidentali o controllati. Sono stati esaminati l’impiego delle radiazioni nella vita comune, presentando i benefici e i rischi da esso derivanti, sono stati valutati i criteri di valutazione e gestione del rischio radiologico, in correlazione anche all’esperienza maturata nella gestione degli incidenti di Chernobyl e Fukushima esaminando gli elementi critici nelle filiere alimentari e le relative procedure di gestione. La giornata ha fornito numerosi spunti di riflessione ed approfondimenti tra i presenti, focalizzando l’attenzione sul rischio della contaminazione della catena alimentare da radionuclidi. La Redazione ha voluto la pubblicazione degli atti del convegno per poter divulgare gli interventi presentati; eventuali approfondimenti possono essere richiesti alla redazione, all’indirizzo email: [email protected].

Sostanze tossiche e integratori

Alcuni integratori di origine vegetale contengono una sostanza tossica, l’alchilbenzene, in quantità tale da determinare un aumento dei casi di cancro al fegato (sperimentazioni su animali). La sostanza è già vietata nell’UE come aromatizzante per gli alimenti, ma non è ancora vietata per gli integratori alimentari. Lo studio è stato segnalato da “Food and Nutrition Sciences”, in cui un team di ricercatori dell’Università di Wageningen e Università di Milano, ha rilevato che sono in ven dita alcuni integratori alimentari vegetali contenenti tali sostanze a livelli paragonabili a quelli che aumentano i casi di cancro nei test sperimentali sugli animali. Nell’analisi sono stati valutati 30 composti di integratori a base di basilico, finocchio, noce moscata, sassofrasso, cannella, calamo o i loro oli essenziali. Alcuni di questi prodotti contengono livelli relativamente alti di alchilbenzeni o composti del gruppo degli alcaloidi pirrolizidinici. L’uso di questi ultimi è già proibito per i cibi e per gli integratori alimentari vegetali nella maggior parte degli stati membri dell’Unione, così come è proibito l’uso di alcuni alchilbenzeni (estragolo, metileugenolo, safrolo o beta-asarone) come sostanze aromatizzanti negli alimenti, ma mancano ancora le norme che stabiliscano limitazioni sulla presenza degli alchilbenzeni negli integratori alimentari.

Conoscenze attuali sulle insalate

Per la collana “Coltura e cultura” ideata e coordinata da Renzo Angelini, per Bayer CropScience, è uscito il volume “Le insalate” (600 pagine, Euro 69, ART Servizi Editoriali Bologna). Il volume raccoglie tutte le informazioni indispensabili per approfondire il sapere sulla produzione delle orticole da foglia che attrae un numero sempre sempre più elevato di consumatori e contribuisce a una notevole esportazione tendenzialmente in continua crescita. Il coordinamento scientifico è di Maria Lodovica Gullino, Direttore del Centro Agroinnova della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Torino. Hanno collaborato più di 60 docenti di varie Università, Centri di ricerca, Istituzioni, Accademie. Gli aspetti nutrizionali sono stati curati da Carlo Cannella e rappresentano l’ultimo lavoro lasciato dall’illustre docente di Scienza dell’Alimentazione dell’Università della Sapienza di Roma. Gli argomenti trattati dal libro sono numerosi e tutti pertinenti: dalla botanica, alla concimazione, alle tecniche colturali per la quarta gamma, ai parassiti, le virosi, la prevenzione dei patogeni trasmessi per seme, al diserbo, al panorama varietale delle lattughe, alla flora spontanea, all’utilizzazione, ai problemi della raccolta, della qualità, agli aspetti microbiologici, alla refrigerazione, alla purificazione, al problema dell’accumulo dei nitrati L’aspetto iconografico è degno di nota, con immagini bellissime, oltre a saggi interessanti sulla storia delle insalate, sulla letteratura, sulla pittura, sui paesaggi, sull’origine e sull’evoluzione, sugli aspetti gastronomici. In altre parole, si tratta di un libro che non ha similari e che troverà senz’altro un posto nelle biblioteche di tutti coloro che in qualche modo si interessano ai problemi dell’alimentazione, dalla produzione al consumo, dalle ricerche bibliografiche indispensabili per nuovi studi e nuove ricerche.

Frutta e verdura in Europa

L’EUFIC (European food information council) ha pubblicato una rassegna sui fattori che influenzano il consumo di frutta e verdura in Europa e quali possono essere gli interventi e gli approcci migliori per aumentarloa Molti stati (Austria, Belgio, Danimarca, Islanda, Olanda, Portogallo, Spagna e Svezia) non includono le patate e altri tuberi amidacei, seguendo le raccomandazioni dell’OMS, mentre le indicazioni norvegesi le includono. Il succo di frutta a volte è escluso dalla categoria frutta e verdura (Belgio e Spagna), a volte è incluso con dei limiti (Danimarca, Olanda e Svezia: una porzione) e totalmente incluso in altri Paesi (Islanda e Norvegia). L’Austria e il Portogallo non danno indicazioni specifiche. L’OMS raccomanda di consumare 400 g di frutta e verdura al giorno, escludendo le patate e altri tuberi come la manioca. In generale, le linee guida sono in linea con quell’OMS, ma alcuni Paesi raccomandano un consumo maggiore (Danimarca: 600 g al dì). In Nord Europa il consumo di frutta e verdura   inferiore rispetto al Sud. Per esempio in Finlandia la fornitura media è di 195 g per persona, che corrisponde a 71 kg per persona all’anno, mentre in Grecia il consumo medio è in media di 756 g per persona al giorno (276 kg pro capite all’anno). I dati sulle famiglie rivelano che il consumo totale di vegetali (esclusi patate e legumi) varia da 284 g al giorno a Cipro a 109 g al giorno in Norvegia. Questi Paesi presentano, rispettivamente, anche le più alte e le più basse quantità di verdure fresche che vengono consumate. È interessante notare che Cipro presenta il più basso consumo (4 g al giorno) di ortaggi trasformati (surgelati, in salamoia, essicati). Il consumo di questi prodotti è più elevato in Italia dove si calcola che sia pari a 56 g al giorno. L’OMS stima che in più della metà dei paesi della Regione Europea il consumo di frutta e verdura è inferiore a 400 g al giorno, e in un terzo dei Paesi il consumo medio è inferiore a 300 g al giorno. Le analisi dell’EFSA sulla base di sondaggi nazionali suggeriscono che la quantità raccomandata è raggiunta solo in 4 degli stati membri dell’UE (Polonia, Italia, Germania, Austria). Includendo i succhi di frutta e verdure, anche Ungheria, e Belgio hanno raggiunto la quantità raccomandata. I gruppi a basso reddito tendono a consumare quantità minori di frutta e verdura rispetto a gruppi a reddito più alto. Gli adulti correttamente educati mostrano un consumo di verdura maggiore. Oltre all’aspetto finanziario, una miglior educazione generalmente indica un reddito più alto, e questo potrebbe essere correlato ad una maggior conoscenza delle sane abitudini. Rimane da chiarire perché le femmine mangino più frutta e verdura dei maschi. Gli uomini tendono ad essere meno consapevoli delle raccomandazioni alimentari. Nei bambini i livelli di assunzione di frutta e verdura sono correlati a quanto consumano i loro genitori. La pressione per mangiare frutta e verdura non ha alcun effetto positivo sull’assunzione dei bambini. I modelli alimentari familiari (e in particolare i pasti consumati in famiglia) migliorano il consumo di frutta e verdura nei bambini. Prima i bambini vengono introdotti alle verdure, più facilmente avranno livelli di consumo più alti in età prescolare. Dato che alcune verdure hanno un sapore leggermente amaro (o comunque non dolce) il bambino potrebbe aver bisogno di provarle più spesso di altri alimenti prima di accettarle. Gli orari di lavoro irregolari e uno stile di vita frenetico sono percepiti come ostacoli al consumo di verdure.

Alimentare la memoria

“Mangiare troppo indebolisce la capacità di ricordare”, questo allarme è stato lanciato dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e ripreso dall’Assomensana, ente “non profit” di neuropsicologi, presieduto da Giuseppe Alfredo Iannoccari (www.assomensana.it). Il deterioramento delle funzioni mentali, osservato nelle persone che consumano più cibo, è determinato non tanto dalla presenza delle calorie extra, ma dal tipo di alimentazione che gli individui assumono e che determina un surplus di energia. In effetti, secondo i dati dell’OMS, chi ogni giorno introduce tra le 2100 e le 6000 calorie si espone a molti rischi, come diabete e patologie cardiovascolari, correlati a cibi poco salutari, tra cui fritti e dolci. Di conseguenza, anche la memoria risente della scarsità di nutrienti benefici e dell’abbondanza di sostanze potenzialmente nocive. Il meccanismo del deterioramento causato da un eccesso di calorie può essere ricondotto a due ordini di motivi (chiarisce Iannoccari). L’organismo deve impiegare tempo e risorse per consentire lo svolgimento di tutte le funzioni nei vari distretti del corpo. Ma far funzionare tutti gli organi dell’apparato digerente, il sistema nervoso centrale e periferico, la muscolatura, i sistemi cardiovascolare, endocrino, immunitario, richiedono un dispendio notevole di energie. Se uno di questi sistemi è costretto ad un superlavoro (come ad esempio attività fisica e continuata, combattere le infezioni, oppure digerire e metabolizzare i cibi, allora tale impegno richiede risorse che vengono per forza sottratte ad altre attività biochimiche, fisiologiche e anche cognitive. Perciò dedicarsi oltre il dovuto al mangiare impegna troppo il sistema digerente a scapito degli altri, perché nega il sufficiente apporto di sangue e ossigeno, ad esempio, alle aree cerebrali e alla loro espressione cognitiva (esempio: spossatezza e sonnolenza dopo un lauto pranzo). Per rallentare il decadimento della memoria, la stessa OMS consiglia a tutti (e in particolare a che si avvicina alla fase senile della vita, di ridurre le calorie quotidiane e di modificare la dieta, limitando gli alimenti sazianti ma troppo grassi e preferendo quelli vegetali. Quasi sempre i grassi di una dieta ipercalorica sono prevalentemente di origine animale o provengono da lavorazioni industriali (e quindi sono “trans” e idrogenati in percentuali maggiori). Anche lo studio Predimed (Prevencion con la Dieta Mediterranea effettuato all’Università di Barcellona)) pubblicato sul Journal Alzheimer Deseases dimostra che la Dieta Mediterranea migliora le capacità cerebrali per la presenza dei polifenoli contenuti nell’olio d’oliva, vino rosso, frutta, verdura, noci. Secondo Giuseppe Paolisso, Presidente della Società Italiana di Gerontologia e Geriatria (SIGG) la prevenzione con la dieta potrebbe diminuire i costi associati all’Alzheimer, che oggi in Italia ammontano a 50 mila euro all’anno per paziente per un totale di oltre 30 miliardi di euro annui.

Surgelati in aumento

Vittorio Gagliardi, presidente dell’IIAS (Istituto Italiano Alimenti Surgelati), ha reso noti i dati della ricerca Astarea volta a chiarire il ruolo degli alimenti surgelati nelle scelte alimentari degli italiani (un campione di 1000 casi rappresentativo della popolazione italiana dai 18 ai 65 anni). Va precisato che i dati forniti da Ismea e Federalimentari danno per il 2011 una riduzione degli acquisti domestici con una flessione della domanda più marcata nel Mezzogiorno che nel resto d’Italia. Una delle componenti che stanno penalizzando il mercato è certamente la problematica dei prezzi d’acquisto delle materie prime; inoltre l’inflazione attesa al 2,7% nel 2011 e la spinta delle quotazioni delle commodity agricole sui costi e sui prezzi non aiuteranno l’attesa ripresa dei consumi alimentari. Nonostante questa situazione, il settore surgelati ha mantenuto le proprie posizioni (+ 0,8% totale) e alcuni dei comparti “storici” del surgelato (vegetali, ittico, pizze) continuano a muoversi con buona incidenza. Nei vegetali il dato interessante riguarda i prodotti preparati (+ 11%) ai quali i consumatori riconoscono un valore oggettivo che prescinde dal prezzo. Il comparto ittico sta offrendo ottime performance (+ 4,5% globale) a testimonianza del fatto che, anche in un momento economico difficile, l’italiano non rinuncia al consumo di pesce. Anche il segmento pizze mostra segnali positivi (+ 6,5%), soprattutto per quanto riguarda il comparto “pizze grandi”(+ 7%), segno evidente che il prodotto oggi è concorrenziale con quello fresco. I segmenti penalizzati sono le paste semilavorate (- 9,50%), la carne bianca (- 1,50%), i piatti ricettati (- 2,80%). Considerando che in Italia il consumo procapite di prodotti surgelati è tra i più bassi d’Europa (13,80 Kg), si comprende come le potenzialità di crescita siano ancora elevate. Inoltre nel nostro Paese l’offerta globale del fresco è più alta rispetto ai principali Paesi europei. Nell’ultimo periodo si è registrato il lancio di referenze proposte in piccoli formati anziché nei tradizionali formati famiglia: i tempi dedicati alla preparazione dei pasti (35 minuti per il pranzo e 33 minuti per la cena), l’aumento delle famiglie mononucleari e dei single, sono tutti fattori che possono contribuire ad ampliare la base delle referenze monodose. Le famiglie a più alto consumo sono quelle con i figli piccoli; l’incremento del consumo dei surgelati negli ultimi 5 anni riguarda la categoria più consigliata dai nutrizionisti: i vegetali (zuppe e minestroni al primo posto). Per quanto riguarda la presenza degli alimenti surgelati nelle mense scolastiche, il consenso risulta “moderato” (molto + abbastanza favorevoli = 66%), anche se i consumatori poco favorevoli sono una minoranza. Da segnalare l’ampia propensione delle famiglie a identificare l’alimentazione scolastica quale garante di una sana dieta per i bambini, come dimostra l’invito ad utilizzare nelle mense i vegetali e il pesce, che sono alimenti più difficilmente
gestibili, per motivi diversi, a livello domestico.

OGM e i semi di soia

Quando parliamo di soia pensiamo all’olio e ai derivati tipo tofu, miso, tempeh, lecitina (caratteristici della dieta vegetariana), che rappresentano dei quantitativi poco significativi relativamente al consumo dei semi della suddetta leguminosa. In realtà il consumo di semi di soia in Italia raggiunge quantitativi ragguardevoli per l’utilizzo della farina di soia negli allevamenti di animali. Per chiarire le dimensioni del problema riportiamo i dati tratti dal Convegno organizzato a Torino dalla Camera di Commercio dal titolo “Nuovi scenari di mercato dei cereali” e presenti nella relazione di Silvio Pellati (titolare dell’Agenzia omonima di Informazioni di mercato). L’utilizzo dei semi di soia in questi ultimi anni ha avuto uno sviluppo notevole (per l’apporto proteico) e soprattutto rapido. Questo sviluppo è legato alla domanda che si è avuta nel mercato come conseguenza del miglioramento del tenore di vita e del consumo di carne. Queste sono le cause per cui è aumentato il numero degli allevamenti di animali e, di conseguenza la produzione di mangimi. La produzione mondiale è passata da 184 milioni di tonnellate del 2000-2001 a 257 milioni di tonnellate nel 2011-2012. Durante il periodo dell’esplosione della domanda di soia, l’agricoltura ha potuto utilizzare le risorse della ricerca, grazie all’utilizzo dei semi geneticamente modificati che resistono ai disinfestanti. Quindi la coltura è stata facilitata. Occorre specificare che dal seme di soia si ricava l’80% di farina di soia e il 20% di olio. La farina è usata dall’industria mangimistica e dagli allevamenti di bestiame; invece l’olio è utilizzato per il consumo umano. In generale l’industria mangimistica e gli allevamenti impiegano la soia nella misura di circa il 25-35% del mangime prodotto. In Italia l’industria mangimistica produce circa 12 milioni di tonnellate all’anno di mangime per il bestiame. Di conseguenza l’Italia ha bisogno di circa 4 milioni di tonnellate di farina di soia. I maggiori produttori di soia oggi sono USA, Argentina e Brasile. La quota di OGM “free” vs. “OGM” è di 27% contro 73%. Il 15% del consumo di soia è “non geneticamente modificato”. L’Italia, con la sua produzione di circa 700 mila tonnellate di semi di soia (come da regolamento Eu, negli Stati membri non si può coltivare merce geneticamente modificata) soddisfa in parte la domanda interna. Il restante 85% della farina di soia che viene utilizzata per il consumo interno è invece di importazione, cioè geneticamente modificata. L’utilizzo della farina di soia geneticamente modificata per alimentare il bestiame è del tutto consentito dai regolamenti dell’Unione Europea. Occorre tener presente che, dato il numero elevato di tonnellate commercializzate di semi di soia, sono possibili contaminazioni fra OGM e “non OGM” nei grandi porti, nelle grandi navi, nei grossi quantitativi trasportati su gomma (Tir) e su rotaia. Scrive il prof. Gilberto Corbellini su “Il Sole 24 ore”: “Rimanere pregiudizialmente contrari agli OGM è oggi per l’Italia insensato sul piano razionale e dannoso su quello economico. Non è razionale perché gli OGM sono più sicuri ed ecologicamente sostenibili rispetto alle coltivazioni tradizionali. Ed è economicamente svantaggioso perché gli OGM garantiscono rese maggiori e tutela della qualità. È ora di tornare a investire in ricerca pubblica e nella creazione di brevetti in un settore dove l’Italia, grazie ai suoi prodotti agricoli di qualità e alle competenze scientifiche presenti nelle università e negli enti di ricerca, potrebbe rapidamente conquistare una leadership internazionale”.

Le quote proteiche adeguate

L’EFSA, l’autorità europea per la sicurezza alimentare, ha diffuso i dati relativi ai quantitativi di proteine di cui la maggioranza degli individui necessita per mantenersi in buona salute (PRI). Questi i valori di riferimento sulle proteine stabiliti dal gruppo di esperti sui prodotti dietetici, l’alimentazione e le allergie:

  • Adulti (compresi gli anziani): 0,83 g per kg di peso corporeo al giorno;
  • Lattanti, bambini e adolescenti tra 0,83 e 1,31 g per kg di peso corporeo al giorno, a seconda dell’età;
  • Donne in gravidanza: assunzione supplementare di 1,9 e 28 g al giorno rispettivamente per il primo, secondo e terzo trimestre.
  • Donne in allattamento: assunzione supplementare di 19 g al giorno nei primi 6 mesi di allattamento e di 13 g al giorno nel periodo successivo.

Il comitato di esperti ritiene che l’assunzione di proteine nella popolazione europea sia adeguata, anzi l’assunzione media di proteine da parte degli adulti in Europa è spesso pari o superiore a una PRI di 0,83 g per kg di peso corporeo al giorno (tra 67 e 114 g al giorno per gli uomini e tra 59 e 102 g al giorno per le donne). Le PRI si applicano a diete con un apporto proteico misto, cioè da fonti sia animali che vegetali. La banca dati dell’EFSA rileva che le principali fonti di proteine nelle diete degli europei adulti sono la carne e i prodotti a base di carne, seguiti dai cereali e prodotti a base di cereali, latte e prodotti lattiero-caseari.

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