Anno 47/Numero 2
Listeriosi: un pericolo da non sottovalutare
La listeria è un bacillo poco noto a livello divulgativo, però è una vecchia conoscenza dei microbiologi. Prende il nome da Joseph Lister, uno studioso degli antisettici: le sue ricerche contribuirono a ridurre drasticamente le infezioni a seguito di interventi chirurgici ( come la “pasteurella” deriva da Pasteur, e l’escherichia coli da Escherich ). Siccome la letteratura ne segnala continuamente la pericolosità, la listeria va fatta conoscere, dato l’aumento dei pasti fuori casa (rappresentano un terzo dei consumi alimentari italiani:hanno ormai sfondato il tetto dei 60 miliardi anno). In passato ha provocato seri guai (riportati anche dal New England Journal of Medicine) in Svizzera, in provincia di Bergamo (Val Taleggio), in provincia di Torino (Moncalieri e Giaveno) dove più di 100 bambini delle scuole elementari e universitarie del capoluogo furono ricoverati dopo aver consumato un’insalata a base di tonno in scatola e chicchi di mais: la convinzione di maneggiare cibi sterili ha fatto diminuire l’attenzione degli addetti ai processi di confezionamento.
La listeria monocytogenes (si chiama così perché può provocare monocitosi, un’alterazione nell’ambito dei globuli bianchi) si differenzia da altre specie di listeria (seeligeri, innocua, welshimeri, ivanovii) perché è dotata di una particolare caratteristica: viene definita “opportunista”. Infatti è una specie assai diffusa nel suolo, nel foraggio, nei vegetali (può sopravvivere anche sui piani di lavoro umidi delle cucine dove aderisce formando un biofilm che resiste alle normali pulizie con l’aiuto di zuccheri complessi noti come polimeri batterici), però la sua aggressività dipende dal numero delle presenze, dalle condizioni climatiche e dallo stato immunitario dell’ospite: sono più facilmente colpiti neonati, bambini, donne gravide, anziani, pazienti con neoplasie, trapianti, AIDS. Le cause dell’aumento dei casi di listeriosi sono numerose: miglioramento delle tecniche analitiche che ne facilitano l’isolamento, maggior ricorso ad insilati nelle pratiche agricole e alla concimazione con liquami non trattati e fanghi ricavati dai depuratori, aumento del numero di animali negli allevamenti con maggior diffusione del germe, variazione delle abitudini alimentari con maggior ricorso alla conservazione: bar, cucine etniche, piatti pronti della grande distribuzione. La listeria ha una pessima reputazione e crea numerosi problemi ai tecnici delle industrie alimentari: riesce a moltiplicarsi anche alla normale temperatura utilizzata per la refrigerazione degli alimenti, sopporta bene il congelamento, è in grado di svilupparsi nell’ambito di pH ampio. Sopporta bene la presenza di cloruro di sodio a concentrazioni elevate, è sensibile ai comuni disinfettanti e all’azione delle radiazioni ionizzanti. Secondo una ricerca del National Food Institute danese le colture di listeria monocytogenes, in presenza di poco ossigeno sono circa 100 volte più invasive e quindi più suscettibili di provocare infezione. Questa caratteristica preoccupa ovviamente i produttori che utilizzano il confezionamento in atmosfera modificata. Non tutti i ceppi sono in grado di provocare una forma morbosa nell’uomo, dove penetra per via orale e si moltiplica nell’intestino penetrando nelle cellule del sistema reticolo istiocitario. Fortunatamente soccombe alle normali temperaturen di pastorizzazione (71°-74°): la comparsa nel latte pastorizzaton e nei suoi derivati può essere dovuta a una contaminazione secondaria.
Data la grande distribuzione del germe in questione nell’ambiente esterno e delle sue caratteristiche, è indispensabile praticare un accurato autocontrollo (HACCP), la formazione del personale, una profilassi efficace a livello dell’allevamento, del macello, dell’industria di trasformazione, in modo da evitare la creazione di portatori sani. Sono interventi che richiedono impegni economici notevoli con benefici poco appariscenti (fanno aumentare i costi di produzione, ma non i guadagni). Tuttavia il rischio “listeria” è grande con conseguenze spesso imprevedibili. Particolari attenzioni sono richieste anche da parte del consumatore il quale è sovente convinto di maneggiare cibi sterili e diminuisce l’attenzione nella conservazione e nella confezione dei pasti (cottura delle carni, lavaggio delle mani, delle posate, del frigorifero, della frutta e verdura, anche se acquistata già pulita in busta).
Gusto, neurobiologia e sapore piccante
Oggi si parla molto di “gusto” nell’ambito della Scienza dell’Alimentazione, perché le preferenze per i cibi sono importanti e dipendono dall’interazione di molti fattori, fra cui le nostre caratteristiche genetiche, l’età, le prime esperienze alimentari, le abitudini delle diverse culture, la piacevolezza dell’ambiente. Il gusto va studiato, stimolato e ampliato per evitare la monotonia della dieta che è un elemento di rischio per una possibile ridotta assunzione di sostanze protettive. Fino a poco tempo fa si conoscevano le strutture cellulari (papille o bottoni gustativi) responsabili dei quattro gusti principali: dolce (localizzate nella parte anteriore della lingua), salato (parti laterali), acido (parti laterali e mediali), amaro (fondo). Successivamente i neurobiologi giapponesi hanno scoperto anche il recettore del gusto “Umami” (significa delizioso), caratteristico del glutammato, un aminoacido aggiunto a forti dosi nei piatti orientali per renderli saporiti e anche nei nostri dadi da brodo. Oggi un altro passo avanti è stato fatto e riguarda la percezione del sapore piccante, un sapore che piace a milioni di persone. Si è visto che la “piccantezza” è una sensazione gustativa secondaria, non dovuta alla specifica interazione di una molecola con il proprio recettore (come avviene per il dolce e l’amaro), ma alla risposta fisica aspecifica di recettori termici (detti vanilloidi) in presenza di una particolare classe di composti detti capsaicinoidi.Gli alcaloidi capsaicinoidi sono caratterizzati da una parte della molecola simile alla vanillina (detta perciò vanilloide) e da una parte classificata come alchilamide.
I capsaicinoidi più importanti sono la capsaicina (presente nel peperoncino), la piperina (presente nel pepe), il gingerolo (presente nello zenzero).
Queste molecole possono entrare in contatto con i recettori vanilloidi presenti nel cavo orale e nella lingua detti VR1 e VRL-1. A loro volta questi recettori sono in grado di riconoscere stimoli termici (avvertono il Sistema Nervoso Centrale quando il cibo è troppo caldo), però possono essere attivati anche dai capsaicinoidi provocando sensazioni di bruciore.Contrariamente alle molecole responsabili dei sapori primari (dolce – amaro – salato – acido – umami) che possono essere riconosciute solo dagli specifici recettori presenti all’interno della bocca (epitelio linguale, palato molle, faringe), la sensazione di piccante può essere riconosciuta anche in altre parti del corpo, ed ecco perché gli alcaloidi capsaicinoidi sono impiegati anche come revulsivi. Quello che generalmente chiamiamo gusto è in realtà il “flavour”, l’aroma, che è un insieme di sostanze chimiche molto diverse, odore, consistenza, temperatura. L’80 % di ciò che percepiamo come sapore, in realtà, è odore. L’organismo umano può distinguere circa 20.000 odori diversi (grazie ai recettori olfattivi situati nella cavità nasale e nel retro della cavità orale) e almeno 10 livelli di intensità per ognuno.
Fra i vari obiettivi che si era posto Cristoforo Colombo nella scoperta del Nuovo Mondo c’era anche la ricerca di spezie pregiate come il pepe che, a quei tempi, costituiva un “business”: serviva infatti per rallentare il deperimento dei cibi e migliorare il gusto. Il sapore piccante ha sempre avuto un alto indice di gradimento (era già conosciuto dai Greci e apprezzato nella Roma imperiale). L’epoca delle grandi scoperte geografiche fu motivata in parte dalla richiesta di spezie. In realtà Colombo non trovò il pepe, ma scoprì il peperoncino che negli anni successivi cambiò le abitudini alimentari di molte popolazioni (Asia, Africa). L’enorme diffusione delle cucine etniche oggi tende a valorizzare anche questo sapore il cui effetto non va considerato come una reazione allergica. Alle dosi normali non induce necrosi ai tessuti e può favorire l’assimilazione di vitamine del gruppo B.
Non demonizzare il burro: un aiuto per equilibrare la dieta
“Due volte nella polvere, due volte sull’altar” dice Alessandro Manzoni nell’Ode “Cinque Maggio”, riferendosi a Napoleone Bonaparte, e lo stesso dicasi per il burro, prima osannato, poi maledetto e che ora sta tornando in auge. Un altalenarsi tra buono e cattivo che si collega anche al variare della sua disponibilità. L’Accademia dei Georgofili ha infatti pubblicato nei mesi scorsi un articolo su questo condimento grasso con il titolo “Scusate, ci eravamo sbagliati” e questo perché sino a qualche anno fa il burro era confinato fra i grassi da dimenticare e bandito dalle tavole, mentre ora inizia ad essere riabilitato con relativi elogi.Scrive Giovanni Ballarini, docente e Preside dell’Università di Parma, e Presidente dell’Accademia Italiana della “il burro è dotato di attività antiinfettiva e anticancerogena e contiene elementi importanti per la salute : sfingomieline, acido butirrico, tocoferoli, squalene, pigmenti carotenoidi, steroli, vitamina A e soprattutto acido linoleico coniugato (CLA). Quest’ultimo è dotato di attività anticancerogena e agisce nel controllo dell’arteriosclerosi, diabete, svolgendo un’attività anticolesterolemica e di protezione dalle coronaropatie, con effetti positivi sulla formazione ossea e come antiinfiammatorio, in patologie come l’artrite reumatoide. Fino a poco tempo fa parlare di burro evocava lo spettro del colesterolo, sottovalutando che il colesterolo presente nel burro è in diretto rapporto, nei soggetti sani, con il colesterolo HDL e inoltre occorre ricordare che il colesterolo nel sangue è dovuto a un complesso di fattori e la dieta interviene solo quando è molto squilibrata “.
La sostituzione del burro con la margarina (ottenuta dai grassi vegetali polinsaturi con il processo chimico di idrogenazione) si è rivelata controindicata per la formazione di acidi grassi insaturi denominati “trans” che per il nostro sistema cardiaco sono più dannosi dei grassi saturi che si voleva sostituire. Trascurando l’uso extranutrizionale e cosmetico del burro (come quello descritto nel film “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci con Marlon Brando, molto chiacchierato) o quello storico (come il condimento agli asparagi offerto dai legionari a Giulio Cesare con perplessità, dato che si trattava di una pomata cicatrizzante), o ludico (come nella canzone di Fred Buscaglione – “eri piccola così”) , di questo condimento si sono dette ogni sorta di stranezze senza considerare le condizioni d’uso. Ecco perché nel volume “ Conoscere e gustare il burro” (Renzo Pellati - editore Daniela Piazza), è stato precisato che nelle normali porzioni di utilizzo (10-20 g ) il colesterolo è presente in dosi che si aggirano sui 23-46 mg, quindi è possibile praticare una dieta sana utilizzando dosi equilibrate di burro, tenuto conto che la quantità normalmente di colesterolo presente nell’alimentazione di persone sane è di 300 mg. Le Società Scientifiche concordano nel proporre un totale di grassi non superiore al 30 % delle calorie totali, di cui circa il 20-25 % sotto forma di acidi grassi saturi. Numerosi chef rinomati consigliano “una noce di burro” come tocco finale di varie ricette, perché i grassi contenuti nel burro sciolgono e veicolano i sapori dei prodotti in cui è presente. Le goccioline di grasso portano alle nostre papille gustative quelle molecole che altrimenti verrebbero ingoiate senza lasciare traccia. Infine va sottolineato il fatto che il burro contiene acidi grassi saturi a catena corta, utili per l’attività muscolare prevalentemente aerobica. L’importanza di questi acidi è dovuta anche al loro punto di fusione che è inferiore alla temperatura del corpo e che pertanto ne consente una digeribilità superiore a quella di altri grassi naturali. L’apporto calorico del burro infine è inferiore agli oli vegetali in genere perché contiene il 16 % di acqua (leggere l’etichetta).
La corretta alimentazione per fare sport
La Rivista Italiana di Nutrizione e Metabolismo (il trimestrale scientifico dell’ADI – Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica) riporta nel numero 6/18 un interessante “focus” sulla corretta alimentazione valida per l’esercizio fisico e lo sport messo a punto da A.L. Badolato e G. Pipicelli. Il lavoro è interessante perché sottolinea una serie di note pratiche da tener presente sia per gli atleti di alto livello che per i praticanti di attività motorie a scopo ludico.
L’alimentazione infatti si diversifica da individuo a individuo in quanto legata alle caratteristiche dei singoli individui. Non esiste la quantità assoluta di carboidrati, proteine, lipidi, che devono assumere quotidianamente tutti i calciatori, tutti i nuotatori, tutti i ciclisti.
Le esigenze alimentari variano soprattutto in base al tempo di allenamento ( 1 ora, 2 ore per 3 volte a settimana oppure per 2 volte la settimana). Variano se lo sportivo deve affrontare o meno una gara, quindi adattare le razioni nei giorni precedenti o durante la gara stessa, in base anche ai gusti e alle precedenti esperienze.
Per quanto riguarda l’apporto proteico (10-15 % delle calorie totali) bisogna tener conto se l’allenamento è indirizzato allo sviluppo della forza e quindi del trofismo muscolare o se il carico dell’allenamento è particolarmente impegnativo, e l’attività quotidiana. Comunque l’apporto giornaliero di proteine non dovrebbe superare i 2 g/Kg che equivale al doppio del limite consigliato per i soggetti sedentari in quanto questa quota è sufficiente sia ad assicurare il turnover delle proteine muscolari, sia a fornire un adeguato apporto energetico. Con il trascorrere delle settimane e dei mesi di allenamento, l’adattamento meccanico e fisiologico diminuirà il fabbisogno proteico. Per gli sportivi vegetariani o vegani che non assumono carne, pesce,uova, latticini, ma solo soia e derivati, va tenuto conto che le proteine contenute nei vegetali hanno un valore biologico inferiore rispetto a quelle animali, per cui, oltre all’utilizzo abbondante di legumi e soia il vegetariano praticante attività sportiva può aver bisogno di integratori che richiedono però un attento controllo quando sono associati a comportamenti dietetici squilibrati. Il sovraccarico proteico costituisce un fattore di rischio nei soggetti con problemi renali e può procurare danni a carico di fegato e reni. In questi casi l’idratazione può essere un aiuto importante per gli organi sopracitati.
Tra i vari supplementi quello più comunemente utilizzato è la creatina, che però studi sperimentali hanno evidenziato possibili rischi ad alti dosaggi e prolungati nel tempo, per cui viene consigliato un apporto giornaliero non superore ai 6 grammi e per un tempo di somministrazione non superiore a 30 giorni, Le carenze di ferro possono insorgere per aumento del fabbisogno, per scarso apporto alimentare, per ridotto assorbimento intestinale, per aumento delle perdite soprattutto con il flusso mestruale, o altri sanguinamenti, o forte sudorazione. Occorre tener presente che il ferro contenuto nei legumi, nei vegetali, nella frutta, nei latticini è poco assorbito rispetto a quello contenuto nelle carni e nei pesci. Occorre anche tener presente che caffè e tè agiscono come inibitori a livello gastrointestinale per il loro contenuto in tannino. Un’altra esigenza importante è quella di assumere abbondante acqua nell’arco della giornata. L’abitudine di consumare bevande arricchite di sali minerali non è considerata una buona abitudine in quanto il sudore è composto dal 99 % di acqua e solo l’1% di sali minerali. E’ importante invece praticare una dieta equilibrata e varia con la presenza di frutta e verdura fresca. L’assunzione di almeno 0,5 l di liquidi due ore prima dell’attività fisica fornisce le scorte per ottenere un’idratazione normale e un tempo adeguato per eliminare i liquidi in eccesso. Mangiare un dolce prima di allenarsi non migliora la prestazione. L’introduzione di zuccheri a rapida disponibilità innalza i livelli di glicemia, però successivamente l’insulina provoca un contraccolpo repentino di ipoglicemia con sensazione di stanchezza e spossatezza. Il consiglio migliore sarebbe quello di consumare carboidrati durante la prestazione fisica, quando la durata supera i 60 minuti. Per rifornire i substrati di glicogeno, i cibi ad alto indice glicemico sono indicati dopo l’attività sportiva, con un mix di tutti i macronutrienti per un migliore recupero. Nel corso dell’attività fisica infatti sono intaccate anche le proteine muscolari per cui la quota proteica durante il pasto post-gara garantirà una buona disponibilità di aminoacidi indispensabili per iniziare la ricostruzione muscolare e facilitare la ripresa di tutte le attività.
Non solo vino per l’uva fresca
Il consumo mondiale di vino è stimato, secondo le fonti più autorevoli, sui 300 milioni di ettolitri.
Dov è nata e com’è nata questa bevanda che raccoglie così grandi consensi dagli albori della storia dell’uomo sino ad oggi ?
Non si sa chi l’abbia inventata. Però si hanno notizie certe sulle località dove è stata prodotta inizialmente.
L’uomo primitivo non poteva immaginare che l’uva raccolta e depositata nei contenitori, dopo alcuni giorni potesse iniziare un processo chimico (chiamato polifermentazione) che trasforma lo zucchero in alcool, grazie ai lieviti presenti nelle bucce.
L’uva era dolce e buona, ma l’uomo sarà stato senz’altro sorpreso nello scoprire che il liquido che si formava al fondo del contenitore dopo alcuni giorni assumeva un gusto diverso: un liquido aromatico, che soprattutto provocava delle sensazioni particolari (euforia, ebbrezza, sonno).
Quindi il vino non era come altri comuni alimenti (esempio olio, carne). Era una bevanda piacevole, ma “strana”, definita anche ”magica”: riusciva a modificare la personalità del bevitore. Alcuni dicevano che l’uomo diventava simile agli dei, e questo spiegava la grande valenza simbolica che l’uomo ha attribuito al più importante derivato dell’uva.
Oggi un ulteriore passo avanti è stato compiuto a proposito della conoscenza dell’uva tralasciando l’enorme utilizzo di questo frutta per la produzione di vino. Oltre all’apporto di vitamina A, B1, B2, PP, K, Ca, P, zuccheri, solubili, sostanze pectiche, acido tartarico (come aiuto per le funzioni intestinali) un gruppo di ricercatori dell’Unità di Ricerca per l’uva da tavola e la vitivinicoltura in ambiente mediterraneo del CREA (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e analisi dedll’economia agraria) con sede a Turi (Ba) in collaborazione con Ricercatori dell’Università di Bari, ha evidenziato che l’assunzione prolungata dell’uva fresca da tavola costituirebbe un fattore di protezione per alcuni disturbi cardiovascolari. E’ stata scelta la varietà “Autumn Royal”, a bacca nera, per il contenuto moderato di zuccheri e quello elevato di composti fenolici (in particolare antociani) per l’attività antiossidante. Le analisi del sangue effettuate sui volontari sani (dall’inizio del periodo di prova, alla fine e dopo un mese, hanno dimostrato che l’assunzione prolungata di uva ha un effetto anticoagulante dato che, aumentando la capacità fibrinolitica del plasma, riduce i meccanismi di formazione dei trombi ed esalta quelli deputati alla loro rimozione. Quindi un’attività antiossidante che combatte i radicali liberi responsabili del deterioramento dei tessuti e del DNA. Di conseguenza se assunta in dosi “generose” è particolarmente indicata come difesa dai principali fattori di rischio dell’aterosclerosi. In altri termini, ancora una volta è stata sottolineata l’importanza di includere la frutta fresca (uva compresa) nel menù quotidiano (almeno 2-3 porzioni) per mantenere una buona salute e soprattutto di variare le scelte per consentire una completa assunzione di tutti i principi nutritivi essenziali.
Dieta chetogenica: i rischi nutrizionali
Al recente Convegno Regionale della Sezione Lazio dell’ADI (Associazione Italiana di Dietetica e Nutrizione Clinica) sono stati evidenziati i rischi nutrizionali della dieta chetogenica dalla relazione di M.Petrelli e G. Giancola (Clinica di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo - Azienda Osp. Univ. degli Ospedali Riuniti di Ancona).
Com’è noto, la dieta chetogenica è una dieta “high-fat, moderate-protein and low-carbohydrate” la cui principale indicazione è tutt’ora l’epilessia farmaco resistente.
Essendo però una dieta che determina una sensazione di sazietà, è importante sottolineare quali siano gli effetti collaterali per evitare che alcune persone inconsapevolmente intraprendano tale modello nutrizionale per ottenere una rapida perdita di peso, senza valutarne le conseguenze.
Per i sostenitori di tale dieta, i carboidrati non sono considerati nutrienti essenziali, in quanto l’organismo umano ha la capacità di generare glucosio anche a partire da precursori non glicidici, Tuttavia, l’apporto glucidico si ritiene fondamentale in quanto permette di evitare un eccessivo catabolismo delle proteine ed un accumulo dannoso di corpi chetonici.
Infatti riducendo l’apporto glicidico, nel fegato si assiste alla beta-ossidazione degli acidi grassi con la conseguente formazione di corpi chetonici ( acetone, aceto acetato, beta-idrossibutirrato). La chetosi così derivante, determina modifiche nella concentrazione di diversi ormoni e nutrienti, tra cui grelina, amilina e leptina, determinando sensazione di sazietà, nausea, repulsione per il cibo.
Ecco perché l’utilizzo degli acidi grassi come fonte energetica e l’induzione della sazietà sono i pilastri dell’applicazione della dieta chetogenetica per i soggetti con BMI superiore alla normalità, senza valutare tutte le conseguenze.
Le principali controindicazioni alla dieta chetogenica sono gravidanza e allattamento, disturbi psichiatrici, porfiria, cardiopatie ischemiche e soprattutto insufficienza epatica e renale. I danni renali provocati dagli alti livelli di escrezione di azoto durante il catabolismo delle proteine sono particolarmente evidenti. I corpi chetonici inoltre, eliminati per via polmonare provocano quasi sempre alitosi.
Sono segnalati anche cefalea, sonnolenza, disidratazione, disturbi gastrointestinali (come stipsi, reflusso gastroesofageo), iperuricemia, iperlipidemia, perdita di capelli ipocalcemia e ipercalciuria.
E’ridotto anche l’apporto di minerali e vitamine pertanto è necessario incrementarli con l’uso di integratori che in genere vengono somministrati senza valutare i livelli ematici, per cui il sovradosaggio di alcuni di essi può rivelarsi dannoso.
Va segnalata anche il disagio emotivo derivante dalle limitazioni dietetiche e la possibilità di un effetto “yo-yo”( più velocemente perdi pesi, più velocemente lo riprendi) molto alto per cui alla sospensione della dieta chetogenica il paziente riprende le sue precedenti abitudini alimentari (soprattutto per quanto riguarda la quantità di carboidrati) e con esse tutti i chili persi.
Nutrizione e salute R. Pellati - Anno 2018 Numero 2
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Aspetti evolutivi e normativi dei prodotti di IV gamma
Riassunto
Quando si parla di alimenti appartenenti alla IV gamma ci si riferisce ad una categoria più ampia di prodotti chiamati convenience food in cui rientrano tutti gli alimenti “già pronti” che permettono al consumatore di risparmiare tempo poiché in grado di velocizzare i tempi di preparazione. I prodotti convenience possono essere suddivisi in due tipologie principali in funzione del grado di lavorazione: gli alimenti parzialmente pronti (cioè quelli che prima di essere consumati necessitano di una fase di preparazione) e gli alimenti pronti per il consumo. L’immagine prevalente legata alla IV gamma può essere quella della classica insalata in busta, lavata e già pronta per l’uso, ma in realtà l’offerta è molto più ampia. In questa categoria di prodotti rientrano gli ortofrutticoli pronti da cuocere, la frutta già tagliata e priva di buccia, le insalate miste, le vaschette già pronte.
Acque destinate all’uso umano: normativa
Riassunto
L’acqua è un bene essenziale per la vita. Pertanto, è necessario evitare che in essa si concentrino talune sostanze che possano nuocere alla salute. Appare di palmare evidenza l’opportunità di volgere particolare attenzione a ciò che l’acqua contiene in sé. Al fine della sua potabilità deve, invero, possedere determinate e specifiche caratteristiche, ovvero, deve essere: incolore, insapore, inodore, chimicamente e batteriologicamente pura, priva di particelle sospese. Al contempo, si sottolinea che l’acqua contiene sostanze, cioè, “oligoelementi”, come il potassio, il magnesio, i quali sono in grado di fornire benefici all’organismo umano. La disciplina normativa di riferimento per le acque destinate al consumo umano è il decreto legislativo n. 31 del 2 febbraio 2001 (“Attuazione della Direttiva 98/83/CEE) e le sue successive modifiche, nonché il Decreto del Ministero della Salute del giugno 2017 che apporta alcune modifiche alla disciplina del 2001. Si precisa che il decreto legislativo n. 31/2001 non si applica alle acque minerali naturali e a quelle medicinali riconosciute, nonché alle acque destinate esclusivamente a quegli usi, per i quali la qualità delle stesse non ha ripercussioni dirette o indirette sulla salute dei consumatori interessati. L’acqua rappresenta uno dei pilastri fondamentali per la salute, risulta essere, però un elemento di estrema instabilità, in ragione dei mutevoli cambiamenti ambientali e climatici e dei vetusti sistemi di reti idriche che si sono susseguiti negli ultimi anni. Ciò si traduce in una maggiore vulnerabilità dell’ecosistema acquifero e, dunque, rende più attuale la problematica relativa alla sicurezza delle acque e alla loro tutela.
Progettazione di nuovi prodotti funzionali a base di frutta disidratata
Sommario
La catena commerciale della frutta fresca estiva, vede sprecare giornalmente ingenti quantità di prodotto scartato per calibratura o difetti estetici. Nelle piccole imprese rurali che non dispongono di impianti di conservazione, si generano rilevanti sprechi nel picco stagionale di produzione, quando il mercato non è adeguatamente ricettivo. La Sabina è un territorio vocato alla produzione di frutti estivi (in particolare ciliegia e pesca), caratterizzato da una forte frammentazione aziendale. Complessivamente la produzione di frutta estiva in Sabina è stimata in kg 12.255.800 per un controvalore di € 20.647.160. Il prodotto è destinato prevalentemente alla vendita diretta presso banchi gestiti dagli agricoltori. Il 12 aprile 2017 si è costituita la Rete di impresa “Produttori agricoli di frutta”, finalizzata al coordinamento delle piccole aziende della Sabina. La Rete intende valorizzare le eccedenze di frutta oggi destinate allo smaltimento, realizzando prodotti trasformati diversi dalle confetture e dai succhi, attività già avviata dalle aziende consorziate. In particolare la Rete è interessata al mercato della frutta essiccata/disidratata che negli ultimi anni ha mostrato un trend di sviluppo maggiore del 10%/anno. Il presente studio, commissionato dalla Rete di impresa, intende individuare gli elementi essenziali per la progettazione e lo sviluppo della produzione di frutta essiccata, di snack a base di frutta essiccata e altri prodotti trasformati a base di frutta essiccata. In base alle indagini sul territorio, da noi svolte nell’ambito di questo studio, si stima che la quantità di frutta fresca sprecata nel territorio sabino è pari a 2.050.500 kg/anno e che lo spreco avviene prevalentemente nella cernita in campo. Nello studio è stata esaminata l’applicabilità, nel contesto sabino, della tecnologia sostenibile dell’essiccatore ad energia solare, frutto del progetto di ricerca Mieri, promossa dal MIPAAF. Sono stati eseguiti test di essiccazione di frutta fresca, produzioni sperimentali di farine estratte da frutta disidratata, produzioni sperimentali di barrette “100% frutta” e di ciliegie pralinate. Le prove di produzione sono state condotte controllando il parametro critico aw ed eseguendo test sensoriali per la validazione del processo. È stata eseguita la valorizzazione nutrizionale dei prodotti trasformati al fine di enfatizzare commercialmente la qualità nutrizionale propria del prodotto, ed effettuati consumer test per verificarne l’accettabilità.
Abstract
The commercial chain of fresh summer fruit is witness to a waste of large amounts of discarded products due to calibration or aesthetic defects. In small rural businesses that do not have conservation facilities, significant waste is generated during peak production season when the market is not adequately receptive. The Sabina region is dedicated to the production of summer fruits (especially cherry and peach), characterized by strong business fragmentation. Overall, Sabina’s summer fruit production is estimated at 12,255,800 kg for a counter value of € 20,647,160. The product is mainly intended for direct sale to farm-managed banks. On April 12, 2017, the business network “Produttori agricoli di frutta” (Fruit Producers) was established, aimed at coordinating the work of Sabina’s small companies. The network intends to exploit current fruit surpluses destined for disposal, making products that are not processed from jams and juices, activities already initiated by the members of the network. In particular, the network is interested in the dried fruit market which, in recent years, has shown a growth trend of more than 10% units per year. The present study, commissioned by the aforementioned business network, aims to identify the essential elements for the design and development of dried fruit production, dried fruit snacks and other processed dried fruit products. Based on the surveys carried out in this study, it is estimated that the amount of fresh fruit wasted in the Sabina region is approximately 2,050,500 kg/year and that waste happens predominantly during field sorting. The study examined the applicability in the Sabina context of the solar energy fuelled sustainable technology, which was the result of Mieri’s research project, promoted by MIPAAF. Fresh fruit drying tests and experimental productions of flours extracted from dehydrated fruits as well as “100% fruit” barrels and praline cherries were carried out. Production tests were conducted by checking the critical parameter AW and by performing sensory tests for process validation. Nutritional enhancement of processed products has been carried out in order to commercially emphasize the nutritional quality of the product and to carry out consumer tests to verify its acceptability.